Il nuovo Zu, un grande album di ambient noise ritual drone tibetano

Zu – Jhator (2017)

ZU Jhator

Zu – “Jhator”

Strana bestia, gli Zu. Partono negli anni ‘90 come gruppo jazzcore con Roy Paci alla tromba. Nella prima decade del ventunesimo secolo entrano nel mito, diventando il gruppo italiano col maggior riconoscimento internazionale, tour dopo tour, collaborazione dopo collaborazione (Melvins e Mike Patton su tutti). Considerato che si tratta di un gruppo strumentale molto vicino ad ambiti quali avanguardia e sperimentazione, capite che la cosa ha dell’incredibile.

Poi arriva il successo vero con l’inarrivabile album Carboniferous, ed arriva anche, brutalmente rapido, il declino. Se ne va il carismatico batterista Jacopo Battaglia, mentre Massimo Pupillo (basso) e Luca Mai (sax) prendono strade diverse per un po’. Nessuno crede veramente che sia finita, ma intanto passano gli anni. Poi ecco il ritorno, che avrebbe potuto essere perentorio, e invece arriva in punta di piedi, con un EP interlocutorio (Goodnight Civilisation), un album in collaborazione con Eugene Robinson degli Oxbow, e finalmente un album vero, Cortar Todo, accolto un po’ freddamente e che vede presto sgretolarsi di nuovo la formazione, col batterista Gabe Serbian (Locust) che entra ed esce come una meteora dal cosmo dei Nostri. Di nuovo a piedi, sembra tutto finito.

Arriva però un nuovo batterista, tale Tomas Jarmyr, norvegese, che ora suona anche nei Motorpsycho. Ne dicono tutti un gran bene, quindi me li vado a vedere dal vivo, in occasione della tappa ravennate del tour. Il concerto scorre fluido, i pezzi storici sono riarrangiati, il nuovo batterista sembra affiatato, ma poi succede qualcosa. Sale sul palco Lorenzo Stecconi (Lento) alla chitarra, e parte un mantra che coinvolge inizialmente solo lui e Pupillo,  poi raggiunti dagli altri due per una mezzoretta circa di ambient noise rituale. Come se i Phurpa usassero i giri armonici degli Earth, se riuscite ad immaginarlo. C’è molto stacco tra le due parti del concerto, mi sento un po’ spiazzato. Compro Jhator, il disco nuovo. Ed ecco spiegato il tutto. Due lunghe tracce di drone mistico, con buona pace di chi come me aspettava di vedere se Tomas Jarmyr avrebbe retto i voli pindarici e le poliritmie degli altri due. Niente da fare. Qui si medita, con un nutrito gruppo di ospiti che accresce paradossalmente il sospetto di un’altra prova interlocutoria. Oltre a Stecconi abbiamo Stefano Pilia (suona in troppi gruppi per nominarli tutti, ma ne parleremo presto), Jessica Moss (Silver Mt. Zion), la virtuosa di koto giapponese Michiyo Yagi, eccetera. Ma i dubbi svaniscono al primo ascolto. Questi sono talmente bravi che si svegliano un bel giorno decidendo di fare ambient noise ritual drone tibetano o chiamatelo come volete, ed escono con una prova che li mette al livello dei migliori al mondo. Con soli due pezzi da una ventina di minuti l’uno, entrano in un circolo mistico cucito da un ipotetico filo che lega Sunn(((O, Earth, Phurpa, Tim Hecker, Goren & Der Club Of Gore. Ed entrano dalla porta principale sedendo subito tra i grandissimi. Magari nella posizione del loto.

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