“Bohemian Rhapsody”: la conferma che il rock è una delle favole più belle del Novecento

Queen Bohemian RhapsodyBohemian Rhapsody (di Brian Synger, 2018)
Il film parla di Freddie Mercury e dei Queen, dalla loro fondazione nel 1970 alla grande performance al concerto di Live Aid del 1985. Non amo particolarmente i Queen (eufemismo) anche se apprezzo la canzone che dà il titolo al film, ma la curiosità dettata sia dal clamore mediatico che in realtà rimbomba da oltre trent’anni (amplificatosi con la morte di Mercury datata 1991) sia dalla mia passione in generale per il rock e la sua storia, ha preso il sopravvento.
La storia del gruppo nasce dall’incontro fra Mercury, che è un ragazzo di origine persiana chiamato Farrokh Bulsara, e due futuri membri della band, il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor, ai quali poco dopo si unirà il bassista John Deacon, così da formare i Queen nella formazione unica e originale che conosciamo. L’ascesa del gruppo e del suo leader, gli amori, la sua sessualità, e gli scontri tra le diverse personalità dei membri durante il periodo di maggior splendore costituiscono la prima parte del film, che poi dedica gran parte delle sue due ore e un quarto per l’evento che rilancerà il gruppo, grazie ai loro venti magici minuti sul palco, ovvero il già citato concerto di Live Aid nel 1985, quando il protagonista già avvertiva i primi sintomi della malattia che lo ucciderà dopo 6 anni e una serie di ulteriori dischi di grandissimo successo.

Il film è prodotto dai due “ex” Queen Brian May e Roger Taylor (le virgolette sono d’obbligo, loro due continuano a suonare come Queen) e non è altro che un’esaltante cavalcata cronologica atta all’esaltazione del gruppo. Il film non c’è, il protagonista Remi Malek è encomiabile nel cercare di riprodurre un personaggio così carismatico e complesso come Mercury, paragonabile per istrionismo a un Michael Jackson o a un David Bowie; pur non conoscendo la storia del gruppo, non si vedono scene particolarmente “negative” (ricordate The Doors?), non si approfondisce alcun personaggio, si mettono in luce sempre e soprattutto le canzoni. Non c’è alcun approfondimento tematico, alcuna incursione cinematografica, alcun momento da ricordare al di là della musica. E in fondo non c’è niente di male, perché il rock è una delle favole più belle del Novecento e qualsiasi estratto di storia di qualsiasi band protagonista, indipendentemente dai gusti, risulta particolarmente godibile. Ma la critica giustamente parla di forbici e di mistificazione della realtà, quest’ultima inaccettabile perché si parla di una biografia ufficiale, e nel caso (io non so nulla della loro vita) sarebbe grave e sbagliato cambiare le vite delle persone.

Sulla superficialità della storia, sul dover mettere in due ore dentro ogni cosa, rinunciando a lunghi periodi storici (1986-morte di Freddie, o anche l’infanzia) è un limite che ti dà il cinema e che è giusto rispettare. A meno di esistenze brevi come nel caso di Control sui Joy Division (il miglior film rock degli ultimi tempi, pur anche in questo caso non amando i protagonisti), è normale parlare di un periodo circoscritto. Il suggerimento però sorge spontaneo: perché in questi casi non utilizzare l’ormai abusato formato delle mini serie, così da raccontare ogni band di successo senza tralasciare nulla?
In conclusione, Bohemian Rhapsody si fa guardare volentieri soprattutto per merito del rock e della sua storia, mentre a livello cinematografico è inconsistente ma corretto e servile (quest’ultimo non necessariamente un difetto per i fans). L’unica cosa che fa davvero ridere sono i premi e le candidature: fuori luogo, tempo e soprattutto fuori di testa.

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