Dialoghi realistici, ambiente “alla Wes Anderson”, finale perfetto e la miglior attrice bambina di sempre

TheFloridaProject 002 1280x640Un sogno chiamato Florida (di Sean Baker, 2017)
In Florida c’è DisneyWorld e a due passi da lì si trova una zona povera e degradata in cui sorgono alcuni motel dove vivono famiglie disagiate, tra cui quella della piccola bimba Moonie, che passa il proprio tempo a commettere atti che definire di vandalismo sarebbe riduttivo, anche perché la giovane madre, Halley, non è assolutamente in grado né di controllarla, né di mantenerla. La trama ci fa pensare a un film come tanti, ma l’indipendente Baker, già autore del notevole e invisibile Tangerine, costruisce di fatto un film di tutt’altro tono, allegro e irresistibile, malinconico e dolce.

Come fa? Intanto creando un ambiente “alla Wes Anderson”, colorato e al limite del fumetto: il motel dove vivono le nostre protagoniste è viola, come viola sono spesso colorati certi vestiti e ambienti interni, mentre il motel dove vive la bimba amica di Moonie è arancione. Disneyworld è alle porte, è visto dai bimbi come un’isola irraggiungibile e un castello in cui vivere, anche se al massimo ci si va a elemosinare un gelato o per rubare e rivendere i biglietti di ingresso. Il motel ha un amministratore, interpretato da un prezioso Willem Dafoe, che funge (sia il personaggio che l’attore stesso) da direttore d’orchestra per il film e per un giovane, debuttante e sorprendente cast femminile: da una parte la ventiquattrenne Bria Vinaite sembra davvero Halley mostrando una totale simbiosi col personaggio, dall’altra la bimba Brooklynn Prince è qualcosa di incredibile, batte tutti i bambini visti sullo schermo negli ultimi quindici – venti anni e ci trascina talmente tanto che lo spettatore fa spudoratamente il tifo per lei nonostante sia fondamentalmente una (simpatica) canaglia.

La magia del film, oltre che nei suoi ambienti e nei suoi attori, si avverte anche nei dialoghi che danno un tono di enorme realismo che contrasta piacevolmente e giustamente lo scenario favolistico, e anche in questo caso stupisce la spontaneità nella padronanza dei dialoghi da parte di queste giovani e giovanissime attrici, neanche li avessero scritti loro stesse. E la regia di Baker, apparentemente timida, è sontuosa nell’entrare dentro le vite delle protagoniste così come nel volutamente ignorare il ricco mondo attorno, nel mostrare primi piani delle sue creature, ignorando di contro spesso i visi di chi pretende legalità nelle azioni di Halley.

Come ogni indipendente che si rispetti, il film si prende qualche pausa generando alcuni momenti di lungaggini probabilmente inutili, finendo per durare quasi due ore, con un buon quarto d’ora di troppo; ma il finale è talmente adeguato, magnifico e perfetto da assolvere con formula piena i vezzi stilistici di un nome nuovo del cinema mondiale, con l’auspicio che possa seguire le orme di uno dei suoi modelli (il già citato Wes Anderson), e non finire nel dimenticatoio come quella Miranda July, che più di dieci anni fa raccontò magnificamente le persone semplici e disagiate con un film da riscoprire:  Me And You And Everyone We Know, l’invisibile, per l’appunto, della settimana, che vi consiglio, insieme con l’uscita nelle sale dell’altro film bello del periodo, Wind River.

Di Un sogno chiamato Florida, amato dai circuiti indipendenti e uscito anche per la famosa Quinzaine di Cannes, stupisce solo che sia uscito (si grida al miracolo!), anche se rigorosamente in sordina a dispetto di solidi intrattenimenti miliardari e noiosi. Finalmente cinema, buon cinema!
PS: Dafoe qui è uguale a Gianni Morandi, doveroso segnalarlo.

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