Il nuovo di Ligabue è il film più brutto della storia del cinema

Made in Italy (di Luciano Ligabue, 2017)
C’era una volta Ligabue: dopo un album d’esordio squisitamente generazionale nel 1990, sbarcò al cinema tra molti dubbi nel 1999 con Radiofreccia, e fu subito cult, perché pur essendo un film molto semplice, aveva raggiunto il cuore degli spettatori toccando, anzi arpeggiando, le corde giuste di un periodo e di certi luoghi e certe notti, mai toccate prima. Qualche anno dopo con Da zero a dieci non riuscì a ripetersi e pian piano anche la vena musicale (per me già esauritasi dopo il primo album, ma per altri no) andava scemando. Quindici anni dopo, il buon Luciano da Correggio torna dietro la macchina da presa innanzitutto per dare corpo e immagini al suo nuovo album che dà il titolo al film e per costruire una storia che leghi il più possibile le canzoni al suo interno contenute. Verrebbe da pensare a The Wall o a Tommy ma vi prego di dimenticare subito quanto avete appena letto. La storia ricorda alla lontana le atmosfere di Radiofreccia perché parla di operai, simpatici perdenti, artisti mai nati e mai sbocciati e di storie per carità ben calate nelle tematiche dei giorni nostri (da lavoro a solitudini, da happy hour a notti brave) e che cercano appunto un filo e un autore. Nella sigla iniziale (probabilmente la cosa migliore) vediamo Accorsi (sempre lui) che balla da solo, un po’ come fece in maniera più efficace Christopher Walken nel video “Weapon Of Choice” di Fatboy Slim. E poi cambia tutto, senza alcun legame con l’incipit.

MadeinitalyVeniamo subito al punto: il film va assolutamente visto perché agli occhi di chi vi scrive è sicuramente l’audiovisivo più brutto della storia del cinema, con una pochezza di scrittura e di recitazione forse paragonabile solo ad Alex l’ariete, in cui Tomba però se la cavava meglio di questo Accorsi. Ogni scena è realizzata in maniera piuttosto imbarazzante e il film è completamente slegato in montaggio e sceneggiatura, tanto che i momenti fortemente drammatici fanno effetto di un bicchier d’acqua preso dal rubinetto dell’acquedotto di Ravenna e scambiato per grappa barricata trentina. Paradossalmente le (brutte, davvero brutte) canzoni di Ligabue sono la cosa migliore del film, unitamente a un paio di hit messe a casaccio (e non con la felicissima capacità di selezione che Luciano l’emiliano aveva dimostrato in Radiofreccia) che passano inosservate nonostante la loro bellezza dimostrata al di fuori di questo disastro.

Ulteriore aggravante, la chiusura anticipata del bar nella sala in cui l’ho visto, che mi ha negato un giro di lambrusco e pop-corn che avrebbero forse funzionato meglio di una tachipirina 1000 per alleviare il dolore del cinefilo che era in me. Quando si assiste a spettacoli così rari e imperdibili come questi si vorrà prima o poi urlare contro il cielo il fatidico “io c’ero!”, perché mentre la compagnia di improvvisati e offensivi Marlon Brando facevano fandango, alla vincente ricerca di stereotipi riciclati, lo spettatore non può far altro che pensare a quale cocktail scolarsi a fine film al primo bar Mario che possa capitargli, dopo aver assistito a un finale doroteo e politicamente più corretto del blu dipinto di blu. L’unica cosa inquietante, invece, è aver letto critiche positive, che dà un ulteriore motivo di invitarvi alla visione per capire quale delle due parti sia completamente uscita di senno, e in caso abbiano ragione loro ditemi tranquillamente a che ora è la fine del mondo. Ho perso le parole, per fortuna. Grazie.

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