La vertiginosa estetica delle rotatorie

Effimeri abbellimenti e slanci identitari negli alterni esiti dell’arredo urbano, al centro di snodi stradali fra centri storici e periferie

Faenza, rotonda su via Granarolo: Gaia e la Balena di Stefano Bombardieri, 2003

Quando una ventina di anni fa alcuni amici arrivavano in automobile da fuori regione o da altre provincie emiliane era ormai usuale aspettarsi il ritornello delle domande e delle successive prese in giro sulle rotonde che interrompevano lo stradario rettilineo delle città romagnole. Nella versione ravennate in particolare si faceva riferimento allo spirito bizantino che si ipotizzava costringesse ancora gli abitanti a girare intorno alle mete, ad allungare il percorso e perdere tempo invece di arrivare diretti allo stop. Il gioco delle canzonature poteva poi giungere al top nei giorni di pioggia, quando alle rotonde si creava un intasamento in grado di bloccare il traffico, specie nelle ore di uscita dal lavoro. Il che succede anche oggi, anche se siamo consapevoli del minor rischio che si corre su questi modi di immissione senza incroci e della maggiore fluidità del traffico in situazioni normali. Ma gli amici hanno anche smesso di ridere quando il modello delle rotonde è stato da anni esportato nelle loro città, acquistando nomi diversi, dal locale “rondò” di Mantova al più asettico e diffuso “rotatoria”.
Se la Romagna è stata per quel che mi risulta una delle prime terre a dedicarsi in modo sistematico a questa modifica stradale, occorre riconoscerle anche il primato della decorazione dello spazio vuoto che risulta nel mezzo del cerchio delineato dalla strada: tante volte si è semplicemente arredato a giardino, altre volte si è provveduto alla piantumazione di un albero, ma pian piano si è fatta strada l’idea di un utilizzo diverso: da quello commerciale con l’inserimento di una marca di una ditta locale, all’utilizzo di un insieme di simboli e prodotti tipici del territorio.
Forlì addirittura ha realizzato l’anno scorso un laboratorio partecipativo per l’allestimento delle proprie rotonde per decidere gli aspetti che dovevano caratterizzare il loro allestimento, dalle essenze alle piante, dai colori ai simboli, dalle tradizioni e nome fino al richiamo dell’identità e della cartellonistica. Il risultato del progetto è stato raccolto in una sorta di abaco che è stato poi adottato dal Comune per essere integrato nel bando – rivolto a imprese, associazioni, quartieri, scuole e cittadini – che decide di volta in volta l’affidamento della gestione delle rotonde. Appena due mesi fa, è stata inaugurata a Villa Selva di Forlì la rotonda Bonfiglioli di via Mattei, proprio davanti alla grande industria metalmeccanica che per una decina di anni ne ha preso in appalto la cura del verde e della sofisticata illuminazione. Nello spazio è stata innalzata una scultura, realizzata grazie al coinvolgimento del Liceo Artistico di Forlì, che dovrebbe rappresentare la vocazione della città al volo. Il soggetto di Icaro rappresenta la storia che parte dall’aviatore forlivese Luigi Ridolfi e dall’aeroporto (un po’ in crisi) per terminare alle scuole del polo tecnologico aeronautico di Forlì. Giustificata la partecipazione della ditta, il collegamento con l’identità e il tessuto sociale del territorio, ma – dispiace dirlo dato il coinvolgimento di tanti studenti – l’effetto finale è un po’ triste, con quella serie di 41 enormi pali color ruggine conficcati nel terreno che sorreggono una (troppo) piccola ruota dentata con la silhouette del mitico trasvolatore.
Da ravennate dovrei tacere, visto l’effetto estetico della rotonda delle tartarughe sulla Romea Sud, subito giù da Ponte Nuovo: presente dal 2004, vedeva 5 tartarughe in cemento rivestite in mosaico che dovevano attestare un qualche contatto identitario col territorio. Una bestiolina è stata rubata nel 2009 – si crede da parte del movimento di liberazione delle tartarughe – mentre le altre hanno resistito fino a questa estate, quando qualcuno le ha parzialmente sbriciolate. Poco male, credo, perché – a sentire le testimonianze – pare non avessero un grande successo neanche fra i bambini. Di cattivo c’è che è un lavoro abbastanza brutto nonostante la presunta simpatia del soggetto; di bello è che bastava dire “tartaruga” perché tutti capissero di quale parte di Ravenna si stava parlando.

In questa gara al brutto o ingiustificato arredo urbano, qualcuno emerge grazie a scelte molto più interessanti dal punto di vista estetico.

Pur rispettando il collegamento con alcune delle vocazioni del territorio – ceramica e arte – Faenza ad esempio ha optato per un progetto coordinato di sculture e opere collocate all’aperto, collocate nei punti nevralgici della città, così come nella sua cintura periferica, che costituiscono una sorta di museo sotto gli occhi di tutti. La realizzazione delle opere non è stata affidata ai tecnici comunali o agli sponsor privati, non è nata da donazioni spontanee (e rischiose), ma dalla scelta o dall’affidamento del lavoro ad artisti faentini, italiani e internazionali. E visti i risultati non si può che applaudire al progetto che crea un’unità qualitativa di insieme, in grado di connotare i luoghi e riferirli costantemente al valore culturale del territorio.
Si prenda ad esempio la rotonda I° Maggio sulla Via Emilia Ponente, dove campeggia un’installazione di Germano Sartelli dal titolo “La spirale”. Realizzata nel 2011, si tratta di una rete metallica di ferro con inserti appesi di ceramica di varie forme, color terracotta. Nonostante l’opera sottragga spazio per prenderlo tutto per sé, risulta lo stesso abbastanza leggera, in linea con la dimensione artistica della città che ha tributato un omaggio allo scultore imolese, appena pochi anni prima della sua scomparsa. Sartelli, artista di fama nazionale emergente nel clima di Arte povera per la sua scelta di riciclo di materiali come il ferro e il legno, aveva stabilito un rapporto privilegiato con Faenza, grazie ad una serie molto importante di sculture informali fatte a ceramica.
Non molto distante da questa installazione, c’è la Rotonda tra le vie Risorgimento, Cittadini e Galvani, dove nel 2004 sono state allestite cinque grandi sculture in ferro di Germano Belletti. Faentino, l’artista lega la propria attività alla città natale dove aveva studiato e aperto un suo laboratorio di ceramica, condiviso con un lungo periodo di insegnamento nelle scuole d’arte cittadine. Nonostante non abbia la stessa statura di Sartelli, il percorso artistico di Bertelli è stato ricco di riconoscimenti, soprattutto negli anni ‘50  a cui si riferiscono le sculture che qui lo ricordano e che costituiscono un buon esempio delle ricerche di quegli anni e del rapporto che Faenza mantiene con le figure artistiche del proprio territorio.
Siccome nessuno è perfetto, anche i faentini scivolano su una rotonda, quella del 2011, intitolata al brigante Passatore: ubicata fra le vie Firenze e Canal Grande, alle Bocche dei Canali, la rotatoria è omaggiata da una scultura un po’ disneyana del Passator cortese che vuole ricordare la gara dei 100 Km su strada a lui dedicata.
Peccato! Una distrazione sul territorio esterno alla città che almeno è equilibrato dalla rotonda su via Granarolo, ben più centrale e posizionata prima del ponte di ingresso alla città, venendo da Ravenna.

Chi arriva rimane stupito alla vista di “Gaia e la balena”, una scultura in resina e ceramica di grandi dimensioni realizzata dallo scultore contemporaneo Stefano Bombardieri.

Installata nel 2003, fin dal suo primo apparire ha creato un punto nevralgico di grande effetto: per poter vedere da vicino quella bambina – china e col viso nascosto da due bande di capelli, mentre trascina con una fune un’enorme balena – c’è chi addirittura si ferma con l’auto. Nonostante il fascino del lavoro, i consensi non sono stati unanimi: c’è chi l’ha criticata perché – sostengono – priva di significato, c’è chi invece si è divertito ad appendere alla fune mutande e calzini.
Non siamo riusciti a contattare l’artista – di origini bresciane, vive fra Italia, Francia e Germania – per capire se è una bufala o no il fatto che l’ispirazione del lavoro gli sarebbe venuta da un fatto vero accaduto in Giappone, quando una bambina avrebbe cercato di salvare un cetaceo spiaggiato, cercando di rispingerlo in mare. Nell’incertezza ci si lascia trasportare dalla suggestione della scultura, ricordando altre storie.
In questo caso viene in mente il romanzo The Whale Rider di Witi Ihimaera – divenuto poi un film nel 2002 – in cui si narra di una bambina maori che sente di essere di diritto la capotribù della propria comunità ma, per quanto capace e brava, viene esclusa perché femmina. Una notte, col proprio canto richiama le balene dal mare che si arenano in spiaggia: nessun adulto è in grado di salvarle tranne la bambina, che a cavalcioni dell’esemplare principale riesce a salvarle, riportandole al largo. Quale sia l’ispirazione e quale le suggestioni prodotte, poco importa: rimane il fatto che un’opera contemporanea può slegarsi dal contesto stretto di significati e arricchire una città di una storia nuova.

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