Rifugiati e diritto di asilo

È noto che dall’agosto 2015 decine di uomini di origine pakistana sono giunte a Ravenna per avviare la procedura di legge per il riconoscimento della protezione internazionale presso la locale Questura. In attesa della valutazione delle loro domande da parte della Commissione Territoriale queste persone sono state aiutate dapprima da una rete di volontariato e di cittadinanza attiva e dal 23 dicembre hanno potuto usufruire di otto container riscaldati con quaranta brandine e un box con docce e bagni nei pressi dell’associazione di protezione civile Mistral, in via Romea Nord a Ravenna.
Annoiata da un chiacchiericcio fastidioso che troppo spesso ignora conoscenze minime di storia, di geografia, di giurisprudenza e di semantica, in questa mia ricerca ho cercato di raccogliere un po’ d’informazioni per tentare di approfondire, se pur in modo parziale la questione.

Norme

In Italia il diritto di asilo è garantito dall’art. 10 comma 3 della Costituzione che recita: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». In relazione alla particolare condizione, può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o può essere accordata la misura di tutela di protezione sussidiaria. La differente tutela attiene a una serie di parametri oggettivi e soggettivi, che si riferiscono alla storia personale dei richiedenti, alle ragioni delle richieste e al paese di provenienza. Nello specifico, il rifugiato è un cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di etnia, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Può trattarsi anche di un apolide che si trova fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni e non può o non vuole farvi ritorno. È invece ammissibile alla protezione sussidiaria il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno. Sono esclusi dalla protezione gli stranieri già assistiti da un organo o da un’agenzia delle Nazioni Unite, diversi dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Lo status di rifugiato e le forme di protezione sussidiaria sono riconosciute all’esito dell’istruttoria effettuata dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

Le norme che disciplinano l’asilo sono regolate a livello comunitario dal cosiddetto Regolamento Dublino II, per il quale lo straniero può richiedere la protezione internazionale nello Stato di primo ingresso che, pertanto, diviene competente a esaminare la domanda.

Oltre alle misure di protezione internazionale, in forza dell’art. 5 comma 6 del D. Lgs 286/1998, richiamato dall’art. 32, comma terzo, D. Lgs 251/2007, è prevista la possibilità di rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari quando ricorrano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». Si tratta di una clausola di salvaguardia mirata a riconoscere tutela anche a situazioni non rientranti in obblighi specifici. Fra i seri motivi -suscettibili di ampia interpretazione – possono rientrare sia situazioni soggettive, come i bisogni di protezione a causa di particolari condizioni di vulnerabilità quali motivi di salute o di età, sia situazioni relative al Paese di provenienza, come grave instabilità politica, episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali, ambientali o situazioni similari. La protezione umanitaria può essere riconosciuta anche quando vi sia comunque un concreto pericolo di essere sottoposti a torture, pene e trattamenti inumani o degradanti, in caso di rientro nel Paese di origine.

Moschea di Abbasi (Cholistan), Bahawalpur (Punjab), Pakistan

Cenni storici

Uno sguardo alla storia del Pakistan può essere d’aiuto a comprendere cosa sta succedendo in questo paese, di cui poco ci viene riportato dagli “organi d’informazione”.
Stato dell’Asia meridionale, il Pakistan è costituito nel 1947 a seguito della dissoluzione del dominio britannico nel subcontinente indiano. Le ragioni che portano alla sua nascita hanno radici remote. Prima della conquista britannica nel XIX secolo, l’India era stata a lungo dominata da potenti dinastie musulmane le quali avevano consolidato nel Paese una forte componente islamica, in rapporti conflittuali con la maggioranza induista della popolazione. Il contrasto tra le due comunità proseguì durante la dominazione britannica e segnò gli anni della lotta di liberazione; al momento dell’indipendenza, in un quadro di gravi violenze, nacquero due nuovi Stati, l’Unione Indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan, a maggioranza musulmana. Questo comprendeva il Sind, il Punjab occidentale, il Belucistan, la provincia della Frontiera del Nord-Ovest e il Bengala orientale, che divenne il Pakistan orientale, separato dal Pakistan occidentale da oltre 1500 km di territorio indiano. Il Pakistan divenne nel 1956 una Repubblica islamica, sebbene schierata con il blocco occidentale. Nel 1948, Muhammad Ali Jinnah aveva dichiarato l’urdu lingua ufficiale del Pakistan, scatenando gravi disordini nel Bengala, di lingua bengali; la tensione fra Pakistan occidentale e orientale crebbe fino a scatenare, nel 1971, una guerra civile, in seguito alla quale il Bengala orientale si distaccò, dando vita al Bangladesh. La crisi politica che seguì portò al potere Zulfiqar Ali Bhutto, che dette il via a un programma nucleare, imprimendo alla politica interna una svolta nel senso del socialismo di Stato. Bhutto cedette infine all’ascesa dei partiti religiosi, che condusse al potere (1977) il generale Muhammad Zia-ul-Haq, in un colpo di Stato che islamizzò il Pakistan e impose la legge marziale, abolendo le riforme socialiste e riconducendo il Paese nel blocco antisovietico. Nel 1988 Zia-ul-Haq morì in un incidente aereo.

Mappa etnica del Pakistan

Fece seguito un decennio di governi retti da Benazir Bhutto e da Nawaz Sharif, che dovettero far fronte alle conseguenze dell’invasione sovietica in Afghanistan, che spostò in Pakistan grandi masse di profughi adepti di una forma estrema di riformismo sunnita: i taliban. Nel 1999 un nuovo colpo di Stato portò al potere il capo dell’esercito, Pervez Musharraf, il quale rafforzò i legami con gli USA, pur continuando il confronto militare e nucleare con l’Unione Indiana, in particolare per il controllo del Kashmir. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, il Pakistan è stato spinto dagli USA a interrompere l’assistenza ai taliban afghani, sostenuti fin dalla loro presa del potere (1996) dai servizi segreti pakistani, per diventare nel 2004 uno dei principali partner degli Stati Uniti al di fuori della NATO. Le elezioni del 2008 hanno condotto all’abbandono del potere da parte di Musharraf e alla vittoria di Asif Ali Zardari, capo del Partito popolare del Pakistan (PPP) dopo l’assassinio politico di Benazir Bhutto, che era sua moglie. Nonostante la progressiva distensione dei rapporti con l’India, nel 2011, dopo l’assassinio del governatore del Punjab da parte di fondamentalisti islamici, il paese fu scosso da una nuova ondata di violenze a carattere religioso. Nel maggio dello stesso anno, in seguito all’operazione militare americana che portò alla morte di Osama Bin Laden, i rapporti tra Stati Uniti e Pakistan subirono un sensibile inasprimento (cfr. «Pakistan», s.v., in www.treccani.it). La grande maggioranza dei pachistani, circa il 95%, è di religione musulmana, con minoranze induiste e cristiane.

PAK BHUTTO

Benazir Bhutto col Manifesto per le elezioni del 2008

La popolazione musulmana risulta divisa tra la componente sunnita (circa il 75% dei musulmani) e quella sciita, divisione che genera numerose tensioni e violenze. Il gruppo etnico più numeroso è costituito dai punjabi, circa il 45%, seguiti dai pashtun (15%), dai sindhi (14%) e da altre minoranze come i sariaki e i beluci. Anche a causa di tale ripartizione, l’urdu, lingua ufficiale del paese assieme all’inglese, è parlata solo dall’8% della popolazione, mentre la lingua punjabi, riconosciuta ma non ufficiale, è parlata da quasi metà della popolazione. L’area punjabi risulta anche quella con la maggiore densità di popolazione, con una distribuzione molto variata: si passa dai circa 19 abitanti per chilometro quadrato nel Belucistan ai più di 350 nel Punjab. Dal 2008, sono trentaquattro i giornalisti uccisi in Pakistan; dall’insediamento del governo di Nawaz Sharif, nel giugno 2013, gli omicidi di reporter sono stati otto, di cui sei nel 2014. In alcune zone del paese, soprattutto quelle rurali e di frontiera con l’Afghanistan, alle istituzioni statali si sovrappongono sistemi legislativi e consuetudinari basati su tradizioni locali e sulla religione, il che rende tali aree quasi indipendenti da Islamabad. In particolar modo le cosiddette aree tribali di amministrazione federale (Federally Administered Tribal Areas, Fata), a maggioranza pashtun, sono governate da funzionari non eletti, afferenti al sistema tribale locale, che vengono nominati dal presidente, senza l’intermediazione dei partiti politici. Allo stesso modo nel Khyber Pakhtunkhwa, nota in passato come provincia della frontiera del Nord-Ovest (North-West Frontier Province, Nwfp), ha destato preoccupazione il fatto che, nel distretto di Swat, il governo di Islamabad abbia raggiunto un accordo con i gruppi islamisti locali legati ai talebani per permettere l’applicazione della legge islamica (sharia) in quell’area. Il recente attentato al parco giochi di Lahore è un ulteriore tentativo da parte di un nuovo gruppo fondamentalista islamico di affermarsi tra le tante fazioni attive in Pakistan. Il sistema legale tribale vigente in alcuni distretti limita molto anche l’uguaglianza di genere, nonostante a livello istituzionale sia garantita dal numero fisso di seggi (60) destinati alle donne in parlamento. In alcune aree vi sono ancora tribunali religiosi e negli ultimi anni si sono verificati casi di lapidazione per adulterio. Secondo l’ordinamento giuridico dello stato, la blasfemia è considerata un reato punibile con la morte. Il governo di Pechino ha investito molto nell’area del Belucistan e nel porto di Gwadar, nel sud del paese, individuando quest’area come possibile terminal per le proprie importazioni petrolifere; e, oltre al porto, sta costruendo per un totale di circa 15 miliardi di dollari. La Cina è il secondo partner per le importazioni pachistane, dopo gli Emirati Arabi Uniti (Uae) e prima di Kuwait e Arabia Saudita, dai quali il Pakistan compra petrolio. Pechino è il secondo partner di Islamabad anche per quanto concerne le esportazioni, preceduta dagli Usa e seguita dall’Afghanistan.

 

La semantica del rifugiato

Il vocabolario che usiamo è decisivo: solo con le parole giuste possiamo capire il significato della presente fuga in massa di popoli. Fuga da che? Da chi? Rispondendo a queste domande siamo in grado di individuare le responsabilità primarie dell’esodo cui stiamo assistendo. Come scrive Barbara Spinelli, la distorsione della realtà comincia con la stessa parola “migranti”, quindi con il sintagma “questione migranti”. Sono pochissimi però gli organi deputati all’informazione che usano il vocabolo appropriato “rifugiati” o “persone in fuga”, l’unico che corrisponde alla stragrande maggioranza degli arrivi.

Immagine ormai ricorrente quella degli emigranti in cerca di un futuro migliore

 

Attualità

Riporto di seguito stralci di una sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Trieste, nella quale il 2 febbraio 2015 si provvedeva ad accogliere l’appello lanciato da un cittadino pakistano riconoscendogli lo status di protezione sussidiaria. Nella sentenza di causa civile contro il Ministero dell’Interno per il provvedimento adottato dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale e per sentire, accertare e dichiarare il proprio diritto alla protezione sussidiaria o, in subordine, a quella umanitaria vengono riportate queste motivazioni: «Osserva il Collegio che l’impugnazione proposta debba essere accolta con conseguente riforma dell’Ordinanza impugnata e debba essere concessa protezione sussidiaria. La Corte ha acquisito informazioni sul Pakistan e in particolare sulla città di Gujrat mediante la Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo presso il Ministero dell’Interno; ulteriori informazioni sono state assunte attraverso i siti reuters.it, ansa.it nonché attraverso il rapporto annuale sui diritti umani in Pakistan fornito da Amnesty International, tra i cui punti critici rilevano la forte discriminazione delle minoranze religiose, la mancanza della libertà d’espressione, l’abuso nell’utilizzo della pena di morte, le sparizioni forzate… la Corte ha quindi deciso che: le dichiarazioni del richiedente possono essere dunque considerate credibili e coerenti, trovando riscontro nella situazione del Paese e nella documentazione prodotta. Alla luce di ciò, la motivazione di diniego adoperata dalla Commissione e l’Ordinanza di rigetto della richiesta di protezione richiesta non appaiono condivisibili, perché il richiedente risulta attendibile. Le condizioni del Paese d’origine invero appaiono idonee ad integrare i presupposti di cui all’art. 14 lett. c) del D. lgs. n. 251/2007, tenuto conto dell’escalation di violenza generalizzata quale emerge dalle informazioni assunte. Dal Rapporto EASO sul Pakistan aggiornato all’agosto 2015 (https//easo.europa.eu/latest-news/easo-issues-country-of-origin-information-report-on-pakistan-country-overviev) si ricava infatti che nel 2014, in Punjab, vi sono stati 41 attacchi terroristici e che il numero delle vittime è cresciuto in modo significativo, così come il numero degli incidenti violenti (che include anche il numero degli incidenti per natura religiosa, etnica, politica e le violenze comuni) e delle persone scomparse.
Dal rapporto Country Information and Guidance, Pakistan, del luglio 2014 (http//www.refworld.org/country) risulta che a prescindere dai motivi di rischio individuale legati a motivi politici e religiosi, tutti i cittadini pakistani, inclusi gli studenti e coloro che non seguono rigidamente la legge della sharia, sono soggetti alla violenza dei gruppi armati. La situazione di criticità esistente in Pakistan è confermata anche dal Rapporto di Amnesty International del 2013, secondo cui “Le minoranze religiose sono state vittime di persecuzioni e attacchi, con uccisioni mirate da parte di gruppi armati, le forze armate e i gruppi armati hanno continuato a perpetrare violazioni nelle zone tribali, tra cui sparizioni forzate, rapimenti, tortura e uccisioni illegali… Le forze di sicurezza hanno continuato ad agire nell’impunità e sono state accusate di diffuse violazioni dei diritti umani, tra cui arresti arbitrari, sparizioni forzate, tortura, decessi in custodia ed esecuzioni extragiudiziali… Da più parti sono state denunziate centinaia di uccisioni illegali, tra cui esecuzioni extragiudiziali e decessi in custodia…I talebani pakistani, Lashkar e Jhangvi, l’esercito di liberazione del Belucistan e altri gruppi armati hanno preso di mira le forze di sicurezza e i civili, compresi membri di minoranze religiose, operatori umanitari, attivisti e giornalisti… Hanno compiuto attacchi indiscriminati utilizzando ordigni esplosivi rudimentali e attacchi dinamitardi suicidi…”. Pertanto, considerata la situazione del paese d’origine e la corposità dei riscontri, in riforma dell’impugnata Ordinanza, all’appellante deve essere concessa la protezione sussidiaria, valutando la Corte che sussistono, nel suo Paese d’origine, fondati elementi che inducono a ritenere la presenza di una situazione di potenziale rischio per l’attuale incolumità dei cittadini, stante il perdurare ed il diffondersi di un clima di generale violenza indiscriminata e di scontro tra i gruppi armati di varie correnti religiose, in un contesto di assoluta carenza delle condizioni minime di sicurezza».

Riflessioni finali sulle derive dell’ortopedia sociale

Hanna Arendt, courtesy of the Hanna Arendt Private Archive

«Privati dei diritti umani garantiti alla cittadinanza, si trovarono ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra». È questa la tesi, posta in Le origini del Totalitarismo a premessa del capitolo sul Tramonto degli Stati nazionali e la fine dei diritti umani, di Hannah Arendt. Prendendo spunto da un articolo del 1943 sempre della Arendt, dal titolo We Refugees, il filosofo Giorgio Agamben così interviene: «La Arendt rovescia la condizione di rifugiato e di senza patria che si trovava a vivere, per proporla come paradigma di una nuova coscienza storica. Il rifugiato che ha perduto ogni diritto e cessa, però, di volersi assimilare a ogni costo a una nuova identità nazionale, per contemplare lucidamente la sua condizione, riceve, in cambio di una sicura impopolarità, un vantaggio inestimabile». Questo vantaggio caratterizzerebbe una nuova coscienza storica, ed è così descritto dalla Arendt: «I rifugiati cacciati di paese in paese rappresentano l’avanguardia dei loro popoli». Secondo Agamben il rifugiato è «nuda vita». Tutto ciò certificherebbe la crisi irreversibile dello Stato-nazione e l’inadeguatezza dell’impalcatura ideologica dei diritti dell’uomo come riportato sempre dalla Arendt: «La concezione dei diritti dell’uomo basata sull’esistenza supposta di un essere umano come tale, cadde in rovina non appena coloro che la professavano si trovarono di fronte per la prima volta uomini che avevano veramente perduto ogni altra qualità e relazione specifica – tranne il puro fatto di essere umani». Lo Stato-nazione, che si regge sul concetto di cittadinanza formulato nella Dichiarazione del 1789, non sarebbe quindi in grado di far fronte a questa nuova realtà, poiché secondo Agamben: «lo statuto di rifugiato è stato sempre considerato, anche nel migliore dei casi, come una condizione provvisoria, che deve condurre o alla naturalizzazione o al rimpatrio. Uno statuto stabile dell’uomo in sé è inconcepibile nel diritto dello Stato-nazione». Di qui le logiche conclusioni: «Se il rifugiato rappresenta, nell’ordinamento dello Stato-nazione, un elemento così inquietante, è innanzitutto perché, spezzando l’identità fra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità, esso mette in crisi la finzione originaria della sovranità».
Il rifugiato diviene così la figura centrale della nostra storia politica.

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