Gli stalli lignei della sala Dantesca fra XVI e XX secolo

Caccia agli “infiltrati“ nel refettorio dei Camaldolesi  della Biblioteca Classense di Ravenna

Terminato il laborioso restauro è stato da poco riaperto al pubblico il grande refettorio del convento camaldolese della Biblioteca Classense di Ravenna, meglio conosciuto come Sala Dantesca. E finalmente si può riammirare il dipinto delle Nozze di Cana, suggestiva creazione di Luca Longhi, riportato in vita dalla meticolosa “ricucitura” pittorica delle parti frammentarie.

Veduta dall’ingresso della Sala Dantesca della Biblioteca Classense di Ravenna, con l’affresco a parete di Luca Longhi (Foto Angelo Palmieri)

Di fronte a tanta bellezza, all’ammiccante sguardo della fanciulla (ritratto della figlia di Luca, Barbara) che sembra invitarci a partecipare al banchetto nuziale, certamente passano quasi inosservati gli stalli lignei addossati alle pareti della grande sala.
Realizzati in legno di noce, fra il 1575 e il 1580, dall’anconetano Mario Peruzzi, testimoniano l’affermarsi e il sopravanzare della tecnica dell’intaglio, rispetto alla tarsia, nell’arte del legno e la crescente voga degli ornati fitomorfici e visionari tipici delle grottesche.
Giorgio Vasari nelle Vite dei più eccellenti architetti pittori et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, prima opera moderna di storiografia artistica, sottolinea l’assoluta dignità dei cori lignei che, per la loro progettazione ed esecuzione, richiedono abilità e competenze specifiche e che manifestano un’evidente mimesi edificatoria con l’edilizia.
Nella vita di Baccio d’Agnolo, architetto fiorentino, scrive Vasari:
«Sommo piacere mi piglio alle volte nel vedere i principii degli artefici nostri che pervengono di basso in alto, e specialmente nell’architettura, la scienza della quale non è stata esercitata da parecchi anni a dietro, se non da intagliatori o da persone sofistiche, le quali aspirano a le cose della prospettiva, e non può nientedimanco perfettamente esser fatta, se non da quegli che hanno giudizio sano e disegno buono, che o in pitture o in sculture o in cose di legname abbino grandemente operato. Con ciò sia che in essa si misurano i corpi delle figure loro, che sono le colonne, le cornici, i basamenti e tutti gli ordini di essa, i quali a ornamento delle figure son fatti, e non per altra cagione. E per questo i legnaiuoli di continuo maneggiandogli, diventano fra qualche tempo architetti».

Una vista su uno dei lati degli stalli e detagli delle cariatidi lignee

Il complesso ligneo classense, costituito da 66 stalli lignei, (26 sulla parete destra, 27 sulla sinistra e 13 sulla centrale) è caratterizzato da una serie di cariatidi che separano le singole sedute e da festoni vegetali ad ornamento della parte superiore dei postergali. Il coro non presenta tarsie con lastricature di essenze lignee pregiate, ma è realizzato unicamente ad intaglio, in noce, essenza arborea di cui Vasari esalta la qualità: «ornamenti di noce bellissimi, i quali quando sono di bel noce che sia nero, appariscono quasi di bronzo».
Molte cariatidi sono rivestite di giubbetti aderenti o di armature e alcune presentano all’estremità superiore trofei d’arme, come lance, spade e scudi. La presenza dei trofei d’armi e il fatto che alcune cariatidi indossino armature potrebbe essere correlato alle glorie militari delle nobili famiglie a cui appartenevano alcuni religiosi e nel contempo riaffermare le raccomandazioni paoline sulla necessità di essere armati, rivestiti della fede per affrontare la quotidiana lotta contro il male.
«Del resto fortificatevi nel Signore e nella sua onnipotente virtù. Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo […] per poter resistere nel giorno del maligno e mantenervi vittoriosi. In piedi, dunque, cinti i fianchi con la verità, rivestiti dalla corazza della giustizia […] abbiate sempre in mano lo scudo della fede, con il quale possiate estinguere tutte le frecce infuocate del maligno. Prendete ancora l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio».
San Paolo, Lettera agli Efesini, Epilogo 6,10-24.

Osservate attentamente le cariatidi classensi non sembrerebbero riconducibili a intagliatori locali ma piuttosto a maestranze itineranti approdate in Romagna a seguito delle leggi iconoclaste e controriformiste che imperversavano nei paesi d’oltralpe. Sono infatti figure lontane dal classicismo italiano e più connotate da un espressionismo e da un sapore tardo gotico ispirato probabilmente dai modelli grafici che circolavano diffusamente.
Sono particolarmente raffinate le cariatidi al centro del coro, destinate con ogni probabilità all’abate e ai padri più anziani, e realizzate con maggiore cura rispetto alle altre da uno scultore più avveduto. La cornice superiore, non più scandita in singole ghirlande vegetali, è costituita da un raffinato fregio continuo: al centro, in corrispondenza della cariatide centrale che reca sul petto un mascherone, si trova un grande mascherone col naso camuso e terminazioni vegetali come baffi ondulati. Dal viso si diparte una barba fogliacea e al posto delle orecchie figurano due boccioli floreali. Lateralmente si dispongono, simmetricamente, due figure mostruose dall’espressione malevola e con fauci spalancate da cui fuoriesce la lunga lingua. Queste creature ibride sono a loro volta affrontate ad altre fantastiche dal corpo di cigno.
Le fattezze della maschera zoomorfa che via via si trasforma lateralmente con cartigli srotolati e svolazzanti ci riporta al poliformismo, al gusto della metamorfosi e alla notevole fertilità tipica dei mascheroni architettonici del manierismo fiorentino, a quel gusto per il proliferare di figure mostruose e bizzarre che verrà in periodo controriformista esiliato dalle architetture religiose e aspramente condannato come a suo tempo aveva fatto San Bernardo definendole ridicula difformitas.
«[…] forme d’uomini o d’animali o d’altre cose, che mai non sono state, né possono essere in quella maniera, che vengono rappresentate, e sono capricci de’ pittori e fantasmi vani e loro irragionevoli immaginazioni; le quali […] sono penetrate fino nei tempii venerandi et accompagnatesi con gli altari e coi vasi e vestimenti sacri[…]».
Il cardinale Gabriele Paleotti è molto esplicito a riguardo e ritiene che «le grottesche poco oggi convengono altrove, ma nelle chiese in nessun modo».1

La fortuna della sala Dantesca e le vicende del coro ligneo sono intimamente connesse al culto tributato a Dante dalla città di Ravenna. Nel 1865, ricorrenza del sesto centenario della nascita di Dante, desiderando rendere omaggio al divino poeta, con rinnovato fervore a seguito del rinvenimento delle sue ossa, fu stabilito di organizzare una lettura pubblica della Divina Commedia nella grande e prestigiosa sala del refettorio camaldolese. Tale fu il successo e il concorso di pubblico che, nei giorni successivi, fu necessario proseguire le pubbliche letture nel Teatro Alighieri.
Nel 1882 maturò la decisione di destinare alla lectura Dantis la sala maggiore del Consiglio Comunale e quindi di trasferirvi, per renderla più degna, gli stalli lignei del refettorio classense, ritenuto inidoneo e per dimensioni e per motivi climatici.
La complessa operazione, che comportava lo smontaggio, il restauro e il successivo rimontaggio nella nuova sede, fu affidato all’ebanista Vincenzo Morelli di Firenze, non trovandosi presenti a Ravenna maestranze idonee a tale scopo. Vennero quindi rimossi gli stalli lignei e il refettorio camaldolese fu adibito a medagliere, facendo ormai parte del Reale Museo di Antichità diretto da Enrico Pazzi.
Ma nei primi decenni del Novecento, volendo riportare la sala Dantesca al centro della vita culturale e riproporla come sede deputata a tale scopo, ci si adoperò per fare tornare nella sede originaria gli stalli lignei ma, a trasferimento compiuto ci si rese sconto che parti delle pareti rimanevano sguarnite: evidentemente fra smontaggi e trasferimenti alcuni elementi erano andati dispersi o distrutti.
Successivamente a causa degli eventi bellici la lectura Dantis fu interrotta, ma ci fu una ripresa nel 1917, come risulta da un articolo di Santi Muratori pubblicato nel Corriere di Romagna, di quell’anno:
«Riprenderà – giova crederlo – in tempi di rivendicati diritti per la patria e per la civiltà; riprenderà nel refettorio di classe, restaurato e riadattato per il suo nuovo ufficio di sala dei ritrovi intellettuali cittadini, là dove essa ebbe cinquant’anni or sono, il suo primo battesimo e dove le austere immagini impressevi dall’arte ci parlano allegoricamente del cibo materiale che si transustanzia in cibo mistico, dell’umanità che si purifica salendo per le vie della sua naturale redenzione».
Silvio Bernicoli – in un articolo sul “Corriere di Romagna” del 15 giugno 1919 – precisa che: «Nel 1882 esso [l’ex refettorio, ndr] fu spogliato de’ suoi stalli che furono trasportati ad adornare le pareti nientemeno che della sala del Consiglio Comunale. Sono stati giudiziosamente ricollocati in questi giorni al ripristino posto; ma decimati da qualche unghia non coprono più l’intero spazio».
Per rimediare a questo inconveniente e completare il coro ligneo fu affidata l’esecuzione delle cornici e delle specchiature liscie alla cooperativa falegnami e per le cariatidi mancanti venne incaricata la scuola d’intaglio della Reale Accademia di Belle Arti.
Le nuove cariatidi, eseguite per risparmiare in legno di abete e non più in noce, nonostante imitino quelle cinquecentesche, se ne discostano per la diversa lavorazione e la diversa resa psicologica delle figure.
Un esercizio interessante potrebbe essere quello di intercettare le cariatidi infiltrate. Ecco un piccolo aiuto per chi voglia cimentarsi nell’impresa: su un totale di sessantasei cariatidi quelle eseguite nel Novecento sono dodici. Buona caccia!

 

Note

1. G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna 1582. In Scritti d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, III, Milano-Napoli 1973, pp. 2639, 2640, 2655, 2658.

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