Pietre secolari come mattoncini del Lego

I laterizi e marmi che sedimentano la storia di Ravenna

Dal lungo “serpente” di mattoni dell’acquedotto di Traiano alla città che si chiude dentro le mura con i marmi sepolti dalla decadenza

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Scansioni temporali all’angolo sud occidentale delle mura: sui mattoni romani si alza la veneziana Torre Zancana, “dentata” di merli

Fin da primo Secolo, nelle aree del grande porto imperiale, vengono scaricati ingenti quantitativi di materiale da costruzione: marmi e laterizi, colonne e blocchi di pietra.
è l’inizio di un gigantesco lavoro: una sorta di “Lego” capace di attraversare epoche storiche in un susseguirsi di costruzioni e demolizioni e ricostruzioni attorno a Ravenna.
L’acquedotto di Traiano (112 d.C.), introduce nel nostro territorio la produzione di mattoni su larga scala. Si può ipotizzare, a tal proposito, che fossero edificate apposite “fornaci” per la cottura dei laterizi. Le argille sedimentate dei fiumi romagnoli, come il Senio- Santerno (che una volta correvano uniti), il Lamone e il Montone, costituiscono un buon materiale, che sarà utilizzato nei secoli successivi: nel nostro territorio dalla fornace Gattelli di Russi e da quella di Bagnacavallo, attive fino all’ultima parte del Novecento; anche il toponimo Fornace Zarattini è del tutto coerente con un insediamento industriale e relative cave d’estrazione.
Tornando all’acquedotto di Traiano, si tratta di un manufatto sostenuto da archi a tutto sesto con una condotta idraulica in materiale lapideo posto sulla sommità e impermeabilizzato con calcestruzzo a base di “pozzolana”: lo possiamo immaginare come un lungo e maestoso “serpente” di mattoni che correva nella pianura. Milioni di pietre che fino alla fine del VI sec. sostenevano il cammino dell’acqua verso Ravenna.
Per diversi secoli i mattoni entrano in città, incontrando altri mattoni,  la cortina di laterizi che circondava Ravenna, proteggendola e fissando i confini del centro urbano, per secoli e secoli, fino ad oggi.
Quando il grande acquedotto di Traiano, provvidenzialmente restaurato da Teodorico cade in rovina, gli archi e le strutture murarie affondano nella pianura, sprofondando nell’oblio.

L’acqua da bere cessa la sua corsa vitale e altre acque limacciose e indomite invadono  quel solco che incide i fragili terreni alluvionali. Restano brandelli di architettura e ingegneria romana, milioni di mattoni che serviranno per ripristinare, alzare, chiudere, costruire altri manufatti. I marmi della canaletta idraulica vengono asportati per primi, preziosi e pronti per il reimpiego.
Con il passare del tempo vengono recuperate parti nobili di edifici d’epoca Traiana e Placidiana, Teodoriciana e Bizantina, nel segno del “riuso”.
Come in un gioco di costruzioni i pezzi di una storia passano ad un’altra, e la stratificazione non si ferma. Come tante scatole nuove del gico del “Lego”, cambia tutto, e si rinnova l’arredo urbano.
All’arrivo dei veneziani nel 1441, la spoliazione di molti edifici in area portuale e classicana, ha già permesso l’edificazione della città dell’Arcivescovo e di quella comunale, anche se restano molti vuoti e il tessuto urbano è ancora incompleto.
La “fabbrica” della Rocca Brancaleone e di altri edifici veneziani rappresentano un altro salto nell’utilizzo di scatole disponibili di pietre e mattoni, vecchie e nuove.

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La poderosa Rocca Brancaleone

Per costruire una grande fortificazione all’angolo nord-orientale della città, la Serenissima impiega vari materiali provenienti da demolizioni: così avviene per la basilica d’epoca Teodoriciana di Sant’Andrea dei Goti. I mattoni però non sono sufficienti: viene così incentivata la produzione di laterizi di alcune fornaci attorno a Ravenna.
Nel suo prezioso Stradario storico di Ravenna (Ed. Il Romagnolo, 1986, Ravenna), Giuseppe Morini ne parla con circostanziata  precisione e qualche tocco ironico:  «Per la costruzione della Rocca furono usati anche materiali di disfacimento presi un po’ dovunque. A questo proposito possiamo citare un reclamo presentato da una nostra Congregazione religiosa che lamenta “…l’illustre ducale dominio ha distrutto le Mura della città di Cesarea (sic.!) poste vicino al monastero di Classe, per la costruzione della cittadella della Rocca…”
Inoltre tutte le fornaci da mattoni, esistenti nel territorio, furono impegnate per fornire i materiali occorrenti, lavorando giorno e notte. Ricordiamo fra tante quelle situate in vicinanza della Città:
a)    Fuori di Porta S. Mama, la fornace di Gaspare di Budo (Pignatta) e quella degli eredi di Nicola Alvisi;
b)    Alle bocche dei fiumi, la fornace dei Monaci di S. Maria in Porto Fuori;
c)    Fuori di Porta Sisi, la fornace già di proprietà  polentana,di Ursicino Aldobrandini,famiglia abitante in via ponte Marino  d)  Fuori di Porta Adriana, la fornace dei monaci di S.Vitale.

 
Quando i lavori di costruzione furono compiuti, apparve un vasto fortilizio che, unitamente alla cittadella, occupava un’area di mq. 16.180. Aveva poderosi bastioni e torri merlate, quartieri comodi per l’alloggiamento della guarnigione, cisterne, armeria, arsenale, un mulino e una fabbrica per le polveri e per le palle di ferro e di piombo».
Le pietre vecchie si mescolano a quelle nuove disegnando chiazze più o meno rossastre con  sfumature giallo ocra. I veneziani hanno chiuso molte porte cittadine, sistemando larghi tratti delle mura che sono state rialzate e rinforzate con poderosi torrioni angolari, ci sono cantieri dappertutto e i richiami dei manovali sulle impalcature si mescolano a quelli dei carrettieri che trasportano i materiali da costruzione: pietrame e mattoni.

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Sulle mura settentrionali, tamponamento in mattoni a chiusura di archi dalle smarrite funzioni

Le murature della poderosa Rocca Brancaleone sentono passare il tempo che si manifesta col rombo del cannone già nel 1512 quando infuria la battaglia di Ravenna.
Sempre il Morini annota l’inevitabile declino: «Le prime serie demolizioni avvengono nel 1630: i Camaldolesi, in occasione dell’erezione della loro nuova chiesa di San Romualdo in Ravenna, pagano “lire 385 e 15 di bolognini per n. 159850 pietre condotte dalla Rocca di Ravenna al Monastero di Classe (città) per servizio della fabbrica della nuova chiesa”.  Nel 1722 viene demolito il Fortino anteriore della Rocca onde usare le pietre per costruire il Teatro Nuovo, posto in via P. Matteucci , attualmente sede della Cgil. Nel 1733 vengono rovinate le Torri, atterrata la chiesa della Fortezza, rotti e spezzati i marmi, per la costruzione della Chiusa sul Montone e del Ponte Nuovo».
L’architettura cittadina nel periodo veneziano vive una fiorente progettazione, che sposta elementi decorativi e ne mescola uso e vocazione: le colonne di granito bigio dopo aver navigato verso il porto di Augusto, forse passarono da un tempio pagano ad un edificio di culto ariano, per poi sostenere il Palazzo del Podestà. L’equilibrio costruttivo non viene penalizzato affatto da questo assemblaggio di materiali, anzi, l’ariosa eleganza del portico scandito da colonne e capitelli, aggiunge un tocco di mistero alla piazza che si allunga verso Oriente.

nuove murature a fianco di Porta Serrata e avanzi del ponte sul Padenna costruito in materiale lapideo

Nuove murature a fianco di Porta Serrata e avanzi del ponte sul Padenna costruito in materiale lapideo.

Dall’Istria arriva via mare la pietra che biancheggia dai balconcini e dalle mensole, dallo strepitoso colonnato della Loggetta Lombardesca ai gradoni circolari della Piazza, incisi da Pietro Lombardo sui quali svettano colonne d’altre genti.
Ravenna intera racconta, attraverso i suoi edifici, di perigli e fatiche. Se pietre e marmi potessero parlare, potremmo sentire lo sciabordio delle acque sul fasciame con i cigolii dei carichi di zavorra sollecitati dalla navigazione.
Arriverebbero voci e dialetti di tutta l’area del Mediterraneo orientale, ordini secchi che scandiscono i momenti della storia. I silenzi affondati nelle nebbie padane accompagnano i tempi lunghi che fanno passare le stagioni sui marmi accatastati sulle sponde del grande porto di Classe. Le mani dei tanti uomini che fabbricavano i mattoni, per permettere la vita di altri uomini, corrono una verso l’altra quasi accarezzando le assi di legno assottigliate dall’uso. Da quelle mani che reggono sapienti gli utensili, passa anche il testimone del tempo in una  sorta di staffetta infinita.
è un’arte straordinaria che nasce dalla terra: i mattoni venuti male e quelli che si rompono trovano impiego nelle abitazioni, dove i locali meno fastosi o di servizio vengono pavimentati con la tecnica del cocciopesto. Sono decorazioni grossolane ma di grande effetto, un patchwork che sembra fuori dal tempo.
Calce, materiali lapidei, laterizi frammentati si aggiungono ai mattoni di questo immenso “Lego” costruttivo che smonta, sposta e rimonta i pezzi, percependo i tempi e le movenze di chi ne ha scavato o marchiato l’origine.

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