Processo Cagnoni, fotografia di famiglia: tre uomini tra orgoglio e insicurezze

Il dermatologo Matteo imputato per l’uccisione della moglie, il padre Mario e il fratello Stefano chiamati dall’accusa a testimoniare: somiglianze e differenze emerse dopo le loro deposizioni davanti alla corte d’assise

Tutti e tre in aula nello stesso momento non ci sono mai stati. Uno c’è sempre perché è alla sbarra per uxoricidio, gli altri due che sono fratello e padre dell’imputato si sono dati il cambio al banco dei testimoni parlando in tutto per quasi sette ore a distanza di una settimana uno dall’altro. E così la dodicesima e la tredicesima udienza (2 e 9 febbraio) del processo per l’omicidio di Giulia Ballestri, trovata uccisa a bastonate il 19 settembre 2016 in una villa disabitata di proprietà dei Cagnoni in via Padre Genocchi a Ravenna, sono diventate la cornice per una fotografia della famiglia Cagnoni mettendo in mostra somiglianze e differenze, entrambe molto marcate, di tre uomini uniti dallo stesso sangue.

Ravenna 10/10/2017. FEMMINICIDIO GIULIA BALLESTRI. Iniziato Il Processo Che Vede Imputato Matteo Cagnoni Accusato Dell’ Omicidio Della Moflie Giuglia Ballestri.

Matteo Cagnoni al banco degli imputati

L’imputato Matteo Cagnoni, dermatologo, è quello dei tre che già avevamo imparato a conoscere nelle puntate precedenti. È quello che non ha saltato un’udienza, che si presenta sempre in elegante abito blu e camicia (a volte la cravatta, quando ha avuto l’autorizzazione dal carcere), che prende appunti al tavolo, che gioca con i giornalisti lanciando occhiate e invitandoli a leggere il suo labbiale ma poi si nasconde dietro “La Repubblica” (mica legge la stampa locale…) per non farsi fotografare. È quello che ha avuto bisogno di qualche udienza per capire che non era il caso di intervenire e correggere i testimoni.

È quello iscritto a una loggia massonica, secondo l’amico e notaio Fabrizio Gradassi. È quello caduto a terra dalla sedia per un presunto mancamento mentre veniva proiettato il video girato dalla polizia scientifica nella cantina del massacro, lasciando più di una perplessità tra il pubblico sulla genuinità della cosa. È quello capace di rivolgere beceri insulti a voce sguaiata contro la suocera, che aveva appena concluso la sua testimonianza, per poi scusarsi genericamente della sua intemperanza, mettendoci una pezza che è sembrata peggio del buco visto che si è premurato di sottolineare che i suoi insulti non erano rivolti al pubblico ministero ma non ha sentito il bisogno di usare parole di scuse verso la madre della vittima.

Il professor Mario Cagnoni al banco dei testimoni. Sullo sfondo nella gabbia degli imputati il figlio Matteo

Il padre Mario Cagnoni, ex docente universitario di medicina interna al Careggi di Firenze, è quello più coinvolto tra i familiari dell’imputato (in principio era stato anche indagato per complicità). L’abbiamo prima conosciuto nei filmati della videosorveglianza della sua villa nel capoluogo toscano, lo si vede aggirarsi nel cortile in compagnia del figlio, nei tre giorni precedenti al ritrovamento del corpo, mentre insieme caricano e scaricano sacchi e oggetti dalle auto. Poi si è presentato di persona davanti alla corte d’assise, citato dall’accusa, e ha risposto alle domande. Giacca, gilet e cravatta. Passo sicuro che nascondeva quel difetto a una gamba che consuma diversamente le suole – dettaglio con cui la procura ritiene di poter stabilire che alcune impronte trovate sulla scena del delitto corrispondono a un paio di sue scarpe – e un piglio che emerge subito dalle prime parole. La procedura richiede di presentarsi con nome, cognome, data e luogo di nascita: il professore ha seguìto il protocollo e poi ha sottolineato con voce chiara «87 anni fa», tanto perché anche ai più scarsi in matematica non sfuggisse la sua età portata egregiamente.

Quando la corte ha respinto la richiesta avanzata dalla difesa affinchè il medico potesse sottrarsi all’interrogatorio – privilegio concesso ai congiunti degli imputati ma non se parenti affini alla parte lesa come in questo caso – ha guardato dritto in faccia i giurati: «Ma io voglio testimoniare, non mi sarei avvalso in ogni caso». Difficile allora attribuire a timidezza il suo continuo allontanarsi dal microfono durante le risposte costringendo il presidente della corte a invitarlo ogni volta a sistemarsi meglio. Ai più è sembrato quasi uno stratagemma studiato per spezzare il ritmo, per confondere, per non farsi mettere all’angolo. Ha risposto ad ogni domanda, non è mai rimasto zitto, non ha mai dato l’impressione di uno che brancolasse nel buio. Per convincere della sua sincerità ha raccontato del suo percorso, da padre che pensa di avere un figlio assassino a padre che percepisce l’innocenza del figlio dalla sua serenità in cella. A volte è sembrato forse anche troppo pronto. Ad esempio gli è sembrata la cosa più naturale del mondo dire che alle 3 di notte del 19 settembre, con la polizia in giro per casa e un figlio accusato di omicidio in fuga vattelapesca dove, lui sia andato in cantina a controllare i cuscini del divano della casa del delitto: non perché sporchi di sangue e quindi da far sparire (ipotesi accusatoria) ma per essere certo che fossero sistemati accuratamente dato il loro tessuto prezioso che meritava un lavaggio professionale per uno sporco generico.

A chiudere la triade è arrivato Stefano Cagnoni, professore associato di ingegneria informatica all’università di Parma. Lui che vive in Emilia, senza moglie e senza figli, con gli altri pare avere poco da spartire. A cominciare dallo stile, meno sofisticato negli abiti ma anche nei dettagli come quella montatura degli occhiali più da topo di biblioteca che da salotti televisivi come il fratello. E poi soprattutto il tono. Non c’è traccia della sicurezza vista negli altri due. Per pochi altri dei 51 testi già ascoltati quella sedia è stata così scomoda. Pareva chiodata. L’impressione era di qualcuno che avrebbe voluto essere altrove. È facile pensare che se avesse potuto avvalersi non l’avremmo sentito deporre.

Ha provato in ogni modo a scartare la raffica di domande del presidente che voleva sapere se il passaggio del patrimonio immobiliare e finanziario tra fratelli (1,8 milioni di valore ceduti da Matteo a Stefano per 160mila euro) fosse un negozio simulato. Alla fine ha ceduto e sì, in famiglia tutti sapevano che i beni rimanevano di fatto dell’imputato. Ma la precisazione fornita spiega molto: i Cagnoni guardano al bene della famiglia e in quel momento spostare il patrimonio era un interesse di famiglia. Stefano, soldatino diligente, ha risposto alla chiamata. Comunque andrà a finire questa vicenda, c’è materiale per una nuova edizione del libro Storie di una famiglia, la mia famiglia scritto dal padre.

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