«Fotografo per non parlare». Alex Majoli presenta la sua mostra, tra amore e guerra

Vernice per la stampa al Mar di Ravenna: un’esposizione da non perdere. Ecco un’anticipazione

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Alex Majoli durante la presentazione alla stampa

«Faccio foto per non parlare», ironizza Alex Majoli che il 14 aprile alle 18 inaugurerà la sua personale al Mar di Ravenna intitolata Andante. Il reporter pluri premiato, per anni ai vertici della Magnum, la più prestigiosa delle agenzie fotografiche del mondo, ha ragione: non si può descrivere una foto a parole. Qui potrebbe concludersi il mio articolo, perché l’unica cosa che avete da fare è andare a vederla: «La fotografia non va compresa o analizzata, va semplicemente osservata», ribadisce. Cercherò però di darvi alcuni spunti per farvi capire che questa mostra è assolutamente da non perdere.

Gli scatti esposti non sono una retrospettiva dei molti anni di attività di Majoli, ma piuttosto un viaggio. Un viaggio che inizia come quello dantesco con una imbarcazione, quella di Caronte che guida i dannati all’Inferno. In questo caso è una nave in partenza dalla Libia verso l’Europa, o verso la morte. Attraverso un rito vudù ripreso in Sudafrica si giunge tra i dannati.

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Alex Majoli durante la presentazione alla stampa

Majoli mescola immagini scattate in giro per il mondo, tra guerre e ribellioni, con quelle della sua vita e della adolescenza nella Ravenna che lasciò molti anni addietro per trasferirsi a New York. Vediamo sua figlia che fa colazione, in mezzo a volti di persone in fuga dalla guerra, vediamo la sua compagna e una sua ex tra i ritratti di chi resiste grazie all’amore.

Alex è un uomo giovanile, altissimo, che stringe la macchina fotografica in enormi mani, e sembra sussurrare all’orecchio del visitatore che in mezzo a quei volti potrebbe trovarsi il suo o quello di chiunque di noi. Che non importa se quelle persone siano nella striscia di Gaza sotto le bombe, o nella propria casa a New York: siamo sempre e comunque “noi”.

Ci sono anche diversi video. «È una foto lunga», si limita a dire, ma è chiaro. Si tratta di inquadrature semplici, efficaci, senza montaggio. Foto che si dilatano nel tempo seguendo un ragazzo che torna a casa, o mostrandoci una bufera in arrivo.

Vediamo gli scatti che fece da adolescente. Sono i corpi in movimento di ragazzini in skateboard a Ravenna, esposti accanto ai giovani ribelli che lanciano pietre contro i soldati in Palestina o che protestano per ottenere la libertà in Egitto. «Quello era il nostro modo di protestare contro la Ravenna borghese di quegli anni. Anche i ragazzi che manifestano nelle foto accanto hanno quindici anni. Non c’è differenza tra quel che eravamo noi e loro».

Su una enorme parete del secondo piano osserviamo le immagini realizzate per la fondazione Guggenheim, raccontano la fine dell’Europa. «C’è la crisi economica in Grecia, la Brexit in Inghilterra, i muri dell’Est, i giovani ungheresi che si sottopongono a un esame per entrare a far parte delle squadre neonaziste. Nel test gli si chiede se sanno come pestare gli zingari senza farsi fermare dalla polizia».

A chi gli domanda se sia andato in America perché l’Italia “gli stava stretta” risponde di no. «Passo molto tempo in Sicilia ultimamente. Mi piace l’Italia. Però il mondo è grande, se devi fotografare qualcosa non puoi stare fermo in un solo posto». Così ha vissuto molto in Brasile, in Europa dell’Est, e ha attraversato luoghi, osservato persone.

«Questa è una meraviglia» dice indicando una foto con un ragazzino nero seduto sul sedile posteriore di un’auto. «Meravigliosa non la foto, ma lui. Il suo sguardo, la sua espressione. In questa foto è veramente “lui”. Si chiamava Paulo, mi seguiva ovunque. Veniva con me quando facevo la spesa, si fermava a casa nostra per cena. Lo avevo dimenticato, ma questa foto lo ha fatto subito rivivere nella mia mente».

Le sue immagini hanno contrasti forti. Molte sono scure come l’inchiostro, ma mai tetre. «Ho voluto rappresentare il mondo come se fosse in un teatro» dice per spiegare l’utilizzo di luci forti e innaturali, come quelle di un palcoscenico. Ricordano la pittura di Caravaggio. Tra le ispirazioni cita grandi fotografi come Paul Graham, Mimmo Jodice, Luigi Ghirri, ma anche il suo primo maestro Daniele Casadio. «A Ravenna avete dell’argenteria, ma la tenete nell’armadio. È ora di spolverarla e tirarla fuori. Ci sono ottimi fotografi qui, non c’è bisogno di guardare oltreoceano per trovarne», ricorda Majoli che proprio nella sua Ravenna fece la sua prima mostra trent’anni fa esatti, nel 1988. Era intitolata Pensiamoci stanotte. Nessuno all’epoca immaginava che quel diciassettenne perennemente con la macchina fotografia in mano sarebbe diventato quello che è oggi.

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