Un museo non può tagliare con il passato e la storia della città

Sopralluogo e riflessioni critiche sul nuovo allestimento delle collezioni del Mar, tra svisate temporali e stilistiche. E se si sdoppiassero in due sedi diverse la raccolta storica e quella contemporanea?

Mar Allestimento Contemporanea

Rimettere mano all’allestimento di un museo (nel caso specifico, parliamo del Mar di Ravenna) è una sfida che coinvolge soprattutto una questione di identità: occorre chiedersi cosa sia un museo considerando la sua storia e quella della città, la sua capacità di conservare e valorizzare il passato, la sua possibilità di costituirsi come laboratorio attivo rivolto alla cittadinanza in termini di cultura, conoscenza e bellezza.

Rileggendo alcuni interventi di Andrea Emiliani – mai superato maestro sui temi di museografia e museologia – si ha la consapevolezza della complessità del lavoro che spetta a chi opera nei musei, un lavoro che necessariamente comprende per il grande storico dell’arte competenze sulla storia del territorio, delle sue istituzioni ecclesiastiche, civili e culturali fino alla storia del lavoro. A Emiliani venne chiesto un confronto informale sul penultimo lavoro di riallestimento del Salone Guidarello nel 2018 e, prima di lui, l’allestimento nella sede della Loggetta Lombardesca nei primi anni ’70 – curato da De Grada e allestito da Pancaldi – venne deciso con la costante supervisione di Cesare Gnudi, un altro colosso della storia dell’arte.
Personalità d’eccezione hanno collaborato per le scelte di allestimento della collezione ravennate che è varia, costruita su un gusto collezionistico locale indirizzato a scelte spesso eterogenee. Proprio per queste caratteristiche Federico Zeri aveva dichiarato eccentrica e senza pari in Romagna la nostra collezione, composta fra l’altro dai nuclei fondamentali dell’abbazia di Classe e della donazione di Enrico Pazzi.

Dagli anni ’70 alla collezione civica si è aggiunta la storia artistica più contemporanea: Ravenna diventò un punto focale italiano all’epoca di Giulio Guberti a cui fecero seguito le mostre, gli acquisti e le donazioni negli anni ’80 sotto la direzione di Bruno Bandini, di Gianni Morelli negli anni ’90, di Claudio Spadoni dal 2002, di Maria Grazia Marini (2013-16) e di Maurizio Tarantino dal 2017. Solo a contare l’ampiezza cronologica della collezione ci si rende conto della complessità del lavoro di riallestimento in uno spazio – quello del monastero portuense sede del Mar – in parte intoccabile perchè esso stesso patrimonio, strutturato per corridoi ampi alternati a spazi ridotti, soffitti ribassati, finestre e porte quasi su ogni parete.

L’attuale riallestimento – pianificato da Tarantino e dalla nuova conservatrice Giorgia Salerno – ha goduto dell’ampliamento concesso dalle sale prima destinate alle mostre ed è da considerarsi una prima tappa del percorso prima dell’allestimento definitivo che in futuro riporterà alla luce altre opere del ‘500 e ‘600 e del contemporaneo, oggi nei depositi. Per cui si può parlare solo di quanto si vede al momento, senza opinare su prossime intenzioni.
L’accoglienza del pubblico è fatta nel chiostro che non viene nominato nel riallestimento: in sostituzione ai mosaici contemporanei che lo arredavano fino a due anni fa – allestiti nel 2013 grazie a un progetto e sovvenzioni europei – campeggiano una o due opere per lato, databili fra gli anni ’70 e il 2006. Nonostante la tenuta visiva dell’installazione di Tresoldi, auspichiamo un rinforzo all’allestimento nei porticati, al momento un po’ spaesanti.
Entrando in galleria al piano superiore, un nuovo spazio temporaneo: la piacevole sezione di “Corpi in movimento” raccoglie le fotografie di Carlo Ludovico Bragaglia, Dino Pedriali e Paolo Roversi insieme ai video di Yuri Ancarani e Alex Majoli.

Si procede alla Galleria dove una inevitabile costrizione spaziale ha da sempre sacrificato la visione delle pale fra cui quella del Vasari: spostato uno Zaganelli, la nuova esposizione inserisce la cosiddetta pala di Cervia del Carrari, mentre invariato risulta il salone Guidarello, dedicato alla pittura romagnola fra ‘400 e ‘500. Intonse le cellette a sinistra, sedi della storica quadreria Classense, a eccezione dell’ultima in cui viene esposta la recente acquisizione della Sacra Famiglia con San Giovannino e Santa Elisabetta attribuita un po’ frettolosamente a Barbara Longhi. Il dipinto – che purtroppo non possiede storiografia o attribuzioni autorevoli ma solo un’aura di produzione emiliano-romagnola – ha tolto il posto a due opere di cui una datata e storicamente attribuita a Barbara, l’altra fra i rarissimi esempi siglati dall’autrice. Risulta quindi difficile legittimare una scelta espositiva che censura il patrimonio in modo così autolesionista per cui speriamo si ponga riparo nella prossima tappa di riallestimento.

Se il criterio guida è stato la visibilità delle recenti acquisizioni ci saremmo aspettati anche di vedere esposta la bella tavoletta di Rondinelli, proveniente dalla predella della pala ravennate di San Bartolomeo oggi a Brera, ampiamente studiata e frutto di un oculato acquisto condotto dalla ex conservatrice Alberta Fabbri che al momento giace nei depositi.
Proseguendo la visita si passa alla sezione delle opere seicentesce e contemporanee in cui l’allestimento strutturale risulta ben fatto, l’oscuramento delle finestre riuscito e le nuovi pareti ben tonalizzate. L’ampliamento spaziale corrisponde a una implementazione espositiva del ‘900 ma anche a una forte riduzione della sezione sei-settecentesca con defezioni difficili da accettare. Ma – ricordiamolo – si tratta di una prima tappa.
Nella prima sala ad angolo rimangono esposti due Zaganelli, forse un po’ lontani fra loro e dalle altre opere dell’autore esposte nelle sale precedenti, forse fuori posto per cronologia e messi in un dialogo non autorizzabile con artisti di area veneta e con la pala di Matteo Ingoli. La sala successiva che ospita alcuni anonimi emiliani di buona mano e la pala di Procaccini conferma una coesione emiliana in un arco temporale troppo vasto e con qualche datazione improbabile come la bella Maddalena di metà ‘600 e non fine ‘500 come si afferma in didascalia.

Difficile anche l’accostamento straniante del Martirio dei Santi Coronati di Ligozzi che condivide con la pala accostata di Procaccini solo il soggetto e un sostenuto dinamismo. Confermano le svisate temporali, stilistiche e geografiche della sala la bella e manierista Allegoria dell’abbondanza del Maestro di Flora e l’opera di Cecco Bravo, unite col criterio dell’affinità tematica. Più coesa risulta la stanza successiva dei bolognesi – Cignani, Guercino, Franceschini – fronteggiata da opere di Tiarini e Resani. Il microcosmo seicentesco termina qui con evidenti assenze e la decapitazione della collezione Pazzi: a chi conosce per frequentazione e studio la collezione mancano i dipinti appena restaurati del seguace di Venusti (che ora appare un’opera del tutto diversa), di Micco Brandi, del seguace di Ribera, opera su cui si è appuntato l’interesse di studiosi nazionali sospettando qualcosa di più di una copia. Assenti i dipinti ravennati del Barbiani e di Pronti, l’opera del Pellegrini già prestata a Parigi e di Crespi; in deposito infine tutti i generi dalle prospettive alle opere floreali, dalle nature morte – fra cui una bella e attribuita a Paolo Antonio Barbieri – alle battaglie e scene di genere come la Pulce (donata al museo da Corrado Ricci) e la Zingara da poco restaurata.

Si chiude qui il ‘600 e dall’innesto di un’opera firmata da Emilio Greco del 1950 si apre con un salto acrobatico una buona selezione di opere più contemporanee, alcune di dimensioni tali da soccombere ad accostamenti difficili come la bellissima tela di Titina Maselli troppo interferente con Stella Acidi di Zorio, opera purtroppo ancora sacrificata nonostante l’apprezzabile sforzo espositivo. Il piccolo Morlotti dipinto anche sui bordi, pericolosamente sgusciato dalla sua capsula protettiva, appare sacrificato vicino alla purezza del lavoro di Dadamaino, in contrasto a sua volta col vicino ed esplosivo Moreni.
Superate nelle sale attigue le collezioni ottocentesche e del primo ‘900 non toccate, la collezione contemporanea riprende nel successivo corridoio in cui solo Bansky costituisce novità in un accostamento di nuovo opinabile con un algido, bellissimo Castellani. La chiusura spetta all’interessante lavoro di Sol Lewitt, allestito in separata sede e oggetto di furenti critiche in città: senza entrare nella querelle, avanzerei solo la richiesta di un restauro dell’opera che presenta cadute di colore e un’indagine che approfondisca la collocazione originaria del lavoro.

Tornando in chiusura alle considerazioni di Emiliani, si sottolinea che un museo non può tagliare col passato e con la storia della città, né abiurare alla sua funzione conservativa e di valorizzazione così come al mantenimento di un dialogo costruttivo con la comunità e la contemporaneità. Al netto delle future intenzioni, considerando i profondi tagli espositivi del riallestimento, il conteggio degli spazi residui e i recenti ed esigui investimenti comunali sul Mar, è ovvio porsi in posizione di allerta. Gli spazi portuensi sono quel che sono mentre le scelte espositive future rischiano di aumentare i dissapori e schiacciare per un verso o per l’altro la storia culturale della città. Si potrebbe giocare al turn-over continuo dei lavori ma un’ottica economica e conservativa sconsigliano del tutto questo percorso.
Ci chiediamo allora: potrebbe essere una soluzione lo sdoppiamento delle sedi museali – una per la raccolta storica e una per l’arte contemporanea – come hanno fatto altre città italiane prima di noi?

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