«La cucina è sostenibile da sempre, non esiste un cuoco che spreca»

Vincenzo Cammerucci ha cominciato ai fornelli nel 1972 e ora è alla guida del suo Camì a Savio. «Nelle brigate vorrei vedere meno barbe e più amore per il lavoro»

Vincenzo Cammerucci

Lo chef Cammerucci nella sua cucina al Camì di Savio

Rispetto per il capo, sporcarsi le mani nelle bettole più infime, farsi la barba ogni mattina. È una sintesi delle regole e consigli che dovrebbe seguire un aspirante cuoco, secondo la visione del 64enne Vincenzo Cammerucci, stella Michelin con il Lido Lido di Cesenatico per dieci anni fino al 2011 quando ha aperto l’agriturismo Camì a Savio.
Lo chef originario di Recanati sta portando avanti un progetto, immerso in campagna ma a due passi dal mare, che è una specie di ritorno alle origini: «Ho lasciato gli anni delle sperimentazioni e ora mi piace proporre una cucina che parte dalle materie prime che vengono dall’orto della nostra azienda».

Cammerucci, è arrivato ai piani alti della cucina italiana quando i cuochi non andavano ancora in tv. La tv ha fatto bene o male al settore?
«In principio ha fatto bene di sicuro. Canali come Gambero Rosso e Alice hanno valorizzato le competenze. Poi tutto è diventato spettacolo, in qualunque trasmissione si fa da mangiare: lei la chiama cucina quella? Purtroppo si fa apparire tutto facile e semplice e arriva un messaggio che non mostra la difficoltà del lavoro. Questo incide sui giovani che vogliono farlo».

Lei cosa insegna ai giovani che arrivano nella sua brigata?
«Prima di tutto ilrispetto peril capo. Molti dicono che sono un po’ duro e anche un po’stronzo ma tanti poi mi chiamano e mi ringraziano per gli insegnamenti. Sono il primo ad aiutarli a trovare altri lavori quando pensano che sia arrivato il momento di cambiare. Nemmeno l’amore è eterno, si figuri se può esserlo un rapporto di lavoro»

Cami2Cuochi si nasce o si può diventare?
«Ci vuole amore per il lavoro e questo può anche arrivare col tempo. A volte le esperienze possono avere influenze: ho visto giovani di talento rinunciare perché si sono trovati in cucine disorganizzate e ho visto giovani che hanno iniziato con poca convinzione e poi si sono fatti prendere per il contesto in cui erano inseriti»

La sua prima stagione in cucina è stata nel 1972. Quanto è cambiato?
«Avevamo i bruciatori a gasolio che andavano accesi prima dell’arrivo dello chef altrimenti ci prendevamo i rimproveri. Si lavorava in cucine con temperature e norme igieniche ben diverse da oggi. E nessuno aveva barba e orecchini…».

Non li vuole vedere?
«Sono rimasto l’unico cuoco senza barba. Vengo da un tempo in cui se ti presentavi al lavoro senza essertela fatta venivi rimandato a casa. Sinceramente in cucina la trovo molto anti igienica. Così come mi piacciono poco quelle foto di gruppo in cucina, tutti a respirare davanti a un pianto pronto».

E le foto dei clienti a tavola?
«Di solito dico che non c’è niente da fotografare da noi perché non facciamo cose fashion ma cose da mangiare. Se ci tengono a fotografare non mi frega niente. L’importante è che anche la cucina fashion poi abbia un sapore».

 

Cami3C’è un ingrediente a cui è più legato?
«Sono nato in campagna, figlio di contadini. Direi che forse le verdure sono qualcosa che mi piace molto».

E qualcosa che non gradisce?
«Il caviale e il salmone. Ma è una cosa mia personale. Forse perché negli anni ’70 nelle cucine era qualcosa di completamente nuovo e ne abbiamo usato tanto. Se mi viene servito in qualche occasione lo mangio, non lo mando indietro».

Camì è un agriturismo, avete 5 ettari di terreno che coltivate. Nel piatto arriva quello che producete?
«Per frutta e verdura è così al 90 percento. Abbiamo un’azienda bio certificata quindi tutte le fasi devono rispettare delle regole precisi con controlli severi. Avere un orto che produce le materie prime significa anche capire che non tutto è disponibile tutto l’anno. E la stagione influisce. Siamo a metà ottobre ma le melanzane e le zucchine sono ripartite perché sta facendo caldo e nel
menù ho ancora i fiori di zucca. Fra una settimana non ci saranno più».

E poi c’è la necessità di rispettare la sostenibilità…
«Si è sempre fatto, mi fanno ridere quelli che la scoprono come una novità. Pensano che i cuochi una volta fossero abituati a buttare le cose? Forse lo erano quelli che non erano proprietari dei ristoranti perché non erano abituati a comprare le forniture».

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