La Via del Colle, il suolo al centro di tutto. «Il vigneto è un ecosistema»

«Abbiamo un approccio senza solfiti aggiunti, se qualcosa non ci piace non va in bottiglia»

Vignaiolo

Francesco Bandi nella vigna di Collinello

In una luminosa mattina di fine febbraio sono andato a Collinello, dietro Bertinoro, per incontrare Francesco Bandi, che con la sorella gemella Chiara – e i genitori Renzo e Oriana – conduce La Via del Colle, azienda agricola all’avanguardia sotto innumerevoli aspetti, soprattutto quello delle tecniche agronomiche e della sostenibilità ambientale. Volendomi concentrare quasi esclusivamente sulla questione enoica, in queste righe ho dovuto tralasciare parecchi passaggi interessantissimi – dagli accorgimenti per il rispetto della natura alla panificazione fatta con cereali di produzione propria, dalle riflessioni sulle fermentazioni alle idee sul cambiamento climatico – e il mio consiglio è quindi di andare di persona a scoprire un luogo e delle persone davvero speciali.
Francesco, qual è la storia de La Via del Colle?
«L’azienda nasce nel 1982 grazie ai miei ge- nitori. Io e mia sorella siamo dell’80. Mia madre faceva la bracciante agricola in queste terre, mio padre era operaio: per lui l’azienda era inizialmente un secondo lavoro. C’era già l’apicoltura dal ’77 e la passione per i tartufi da ancora prima, ma i primi 7 ettari coltivati furono piantumati nell’82: vigneti misti, orticole e soprattutto frutteti. La ciliegia è stata la nostra attività principale per trent’anni. Nel 2005 io e mia sorella ci siamo laureati e abbiamo entrambi scelto di proseguire l’attività agricola, Chiara ha iniziato con la trasformazione della frutta, io con la conduzione delle api e della cantina, ma il grosso era ancora la ciliegia fresca, il 40% del fatturato. Poi tra il 2011 e il 2012 è arrivata la Drosophila suzukii. Non volevamo usare insetticidi, per via delle api, così abbiamo rinunciato alle ciliegie: è stato difficile, ma ci ha permesso di ripensare la destinazione d’uso dei terreni, aumentandone la biodiversità».
E qui inizia la revisione del vigneto.
«Esatto. abbiamo iniziato a inserire l’agricoltura rigenerativa, che è un modo di intendere la pratica agronomica mettendo al centro il suolo. Ogni anno dedico almeno un viaggio alla visita di realtà agricole virtuose in giro per il mondo da cui imparare cose nuove anche per i vigneti. Ho creato un ecosistema vigneto più biodiverso, inserendo piante da frutto e aromatiche nei filari, sovescio autunnale (avena, senape, favino, trifoglio, rafano e così via), tisane di equiseto, ortica e propoli per stimolare le difese immunitarie della pianta, preparati biodinamici per aumentare la fertilità dei suoli. Per me è molto importante che si ritorni alla terra e si capisca che all’interno dell’ecosistema vigneto si può ricavare tantissimo altro».
Il clima ultimamente ha un po’ sparigliato le carte.
«Sì, vendemmiamo solo nelle ore più fresche, alle 9.30 terminiamo di raccogliere, per evitare mosti caldi. Non uso termoregolazione, quindi serve uva fresca, non oltre i 24 gradi per non avere arresti fermentativi. La vendemmia dura anche un mese, non anticipo, rispetto l’annata, anche se ne esce un vino più alcolico. Di questi tempi commercialmente si tende a fare vini scarichi, basso grado alcolico e alte acidità; oggi il clima non ti dà più certe condizioni, e in annate calde come la ‘22 e la ‘23, ho semplicemente vendemmiato quando l’uva era matura, senza anticipare in maniera violenta. È una scelta controcorrente, ma per me fondamentale».
Mi sembra evidente che il tuo approccio, sia alla vigna che, presumo, alla cantina, sia di estremo rispetto per la natura.
«Abbiamo 34 ettari coltivati: 2 di uliveto, 5,5 di vigneto, 9 di seminativo, poi frutteti, orto e quasi 300 alveari. Il vino è conseguenza dell’approccio agricolo. Lavoro con macerazioni lunghe, uso l’anfora di terracotta come strumento, non come vezzo. Soprattutto per i bianchi, le macerazioni finiscono a marzo. Poi i vini riposano in anfora o in cemento crudo e vanno in bottiglia prima della vendemmia successiva. Ho scelto un approccio “zero zero”, che è l’unico che in questo momento mi rappresenta: in tutti i vini che facciamo dichiariamo la solforosa in etichetta e siamo senza solfiti aggiunti su tutto. Se c’è qualcosa che non mi piace, come è successo nel 2021, non va in bottiglia».
Quanto producete e quante referenze?
«Nelle annate generose arriviamo a 20mila bottiglie. Le referenze sono 15-16, troppe. Un limite che entro dieci anni spero di avere risolto. Il fatto è che dopo venti vendemmie sto ancora cecando di capire cosa mi piace di più e cosa meno, per cui il numero di referenze rispecchia un po’ questo bisogno di sperimentare, di capire e di lasciare andare. E comunque il limite è anche il vigneto stesso, visto che stiamo parlando di uve che di solito impiegano 10, 12 anni prima di diventare interessanti; ciò mi stimola a guardare avanti ma allo stesso tempo mi costringe a vinificare alcune uve che non amo e che aveva piantumato mio padre in passato, quando magari c’era la moda degli internazionali».
Apriamo qualche bottiglia?
«Albana e sangiovese sono quelli che ci rappresentano di più. Provengono dallo stesso vigneto di 42 anni. L’albana si chiama Ultra, in due versioni, entrambe macerate e in anfora – una georgiana, l’altra toscana –. Il Vedonero, selezione di sangiovese, fa 18 mesi in cemento crudo, poi 6 mesi in anfora. Dagli altri vigneti produciamo i vini base e gli ancestrali».
A Ravenna dove si possono trovare i vostri vini?
«Da Campovinato e da Farcia. Sulla piadineria Farcia val la pena spendere due parole in più, perché è proprio grazie all’attenzione di persone come Mattia (Pulini, il gestore, ndr) che tutta la filiera dei prodotti agricoli artigianali può farsi conoscere, dando vita a un circolo virtuoso».

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In degustazione (per voi): sangiovese Vedonero e albana in anfora Ultra
Tra i vini de La Via del Colle abbiamo scelto di degustare il Sangiovese Forlì Igt Vedonero 2020, e il Bianco Forlì Igt Ultra 2023. Il primo, imbottigliato solo nelle annate ritenute migliori, è una selezione di uve provenienti da una vigna di oltre 40 anni e, fin dall’etichetta un po’ joydivisiana, si pone come un vino ieratico, di gran classe, da meditazione ma pronto a sentirsi a suo agio anche in compagnia di una piada con formaggio. Bello il naso, con la tipica viola, ma anche prugna, frutti di bosco e una nota di tabacco. Il tannino è perfettamente integrato in un corpo solido e di gran tenuta, sontuosa la freschezza, che lo rende di grande beva. Siamo in presenza di un sangiovese che surclassa in scioltezza una gran fetta di suoi colleghi.
L’Ultra invece è l’albana che La Via del Colle fa maturare per sei mesi sulle bucce in qvevri, ossia l’anfora georgiana. Qui (dopo essersi trovati nel bicchiere un colore ramato molto invitante) è il naso a rivelarsi davvero uno sballo, con fiori e frutti gialli, anice stellato, erbe aromatiche, con un sentore di crosta di pane. Al palato è avvolgente – il mio consiglio è di berla non a bassissime temperature, 14-15 gradi –, c’è una tensione vibrante molto piacevole, data anche da una presenza alcolica importante (14%), equilibrio da manuale.

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