Sushi e sashimi: ecco dove e come gustarli

Cosa chiedere e cosa cercare nei ristoranti che preparano questa specialità sempre più amata e diffusa

Oggi possiamo dirlo a cuor leggero: dopo molte altre nazioni europee, anche l’Italia è stata contagiata dalla “febbre” della cucina giapponese, sushi e sashimi in particolare. E se da una parte i piatti “veri”, quelli giapponesi, si possono gustare in tutta loro integrità e ritualità, soltanto in un sushi bar nipponico, non è sbagliato pensare che ci si possa concedere un ottimo sushi anche in un ristorante della nostra città. Sicuramente non è facile valutarne l’eccellenza e, ancora di più, non lo è riconoscere un sushi preparato a regola d’arte. Basti pensare che, anche riguardo alle origini, la confusione regna sovrana: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, infatti, il sushi affonda le proprie radici non nella cultura nipponica, bensì in quella della Cina e della Corea. In questi territori infatti il termine sushi era anticamente utilizzato per indicare un particolare metodo di conservazione del pesce che era fatto fermentare nel riso in modo da provocare un aumento di acidità nell’ambiente e consentirne un migliore stoccaggio. Notevolmente diverso dal sushi che conosciamo oggi, i vari tagli poi venivano marinati con salsa di soia e sale e, il wasabi, ossia la “pasta” dal colore verde che si trova spesso accompagnata allo zenzero fresco, era aggiunto solo per coprire eventuali sapori sgradevoli del pesce.

È solo a partire dal 1800 che si assiste alla vera e propria diffusione del sushi moderno grazie alla realizzazione dei primi nigiri tra le bancarelle di Tokyo. Da allora il gusto e lo stile giapponese hanno influenzato così profondamente la tradizione del sushi da renderlo qualcosa di molto diverso rispetto a ciò da cui aveva avuto origine. Oggi infatti, tra la vastissima varietà di sushi, oltre ai tipici nigiri (pezzi di pesce su polpettine di riso arrotolate in una striscia di alga nori) troviamo il sashimi, ossia fette di pesce crudo servito su foglie di shiso, gli uramaki, rotolini con alga all’interno e riso all’esterno con semi di sesamo o tobiko, gli hosomaki, rotolini con alga nori esterna e all’interno un pezzo di pesce, e molti altri ancora.

Torniamo ora al riconoscimento di un buon ristorante e, non avendo esperienza a riguardo, come è possibile capire se quello in cui vogliamo prenotare prepara un sushi a regola d’arte? Beh, un trucco vero e proprio non esiste ma credo che il segreto stia nell’osservare i dettagli, l’aspetto della sala, la consistenza del riso dei nigiri, l’odore che rimane nei nostri indumenti …

Ecco allora quali sono le cose da tenere d’occhio per poter mangiare un buon sushi.

Prima di tutto il ristorante non deve puzzare di pesce perché quando il pesce è fresco e perfettamente conservato non emette nessun odore: in caso di olezzi fastidiosi, meglio cambiare destinazione. E sempre circa l’ambiente, secondo la più radicata e plurisecolare tradizione giapponese, il logo in cui si accoglie l’ospite deve essere estremamente pulito ed armonioso: la sala sarà ordinata, arredata con uno stile minimalista, ben illuminata e soprattutto linda.

Poi, passando alla sostanza, è necessario controllare la materia prima, ovvero il pesce: un ristorante giapponese degno di questo nome infatti dovrebbe esporre il fresco direttamente sul banco, opportunamente protetto da un vetro, ma visibile a tutti gli avventori. A questo proposito è bene ricordare che l’itamae (il sushi chef), sempre secondo la tradizione, deve preparare i suoi piatti nello stesso ambiente in cui sono i clienti e utilizzare solo il pescato esposto in vetrina! A livello sensoriale bisogna osservare il colore: ricordate che il pesce fresco non è mai monocromatico ma presenta spesso delle sfumature differenti. Se trovate la pelle, questa deve essere lucida, mentre nel pesce decongelato solitamente appare opaca e dura. Al tatto si deve avere la sensazione che scivoli e non appiccichi; all’olfatto si deve percepire un lieve profumo di mare non troppo persistente. Attenzione anche alla stagionalità e alla territorialità del tipo di pesce che trovate nel vostro sushi: ad esempio, il salmone, uno dei pesci più usati nei ristoranti giapponesi occidentali, non è un pesce autoctono ma è importato dalla Norvegia, quindi, prestate molta attenzione al colore della carne e all’intensità del sapore. Per quanto riguardo il tonno, invece, è bene sapere che con le varie parti di questo pesce si possono ricavare 3 principali tipi di sashimi: l’akami, il più magro, scuro ed economico; il chutoro, più chiaro, mediamente costoso e grasso e infine l’otoro, extra grasso, rosa, dolce e particolarmente costoso. Infine, una considerazione sul polpo: questo mollusco richiede un trattamento particolare, ossia un massaggio che può durare anche fino a 45 minuti. La carne quindi dovrà essere particolarmente morbida e facilmente masticabile.

Andando oltre, è molto importante leggere il menù ed evitare quei ristoranti che offrono “cucina cinese e giapponese” o, peggio ancora, una genericissima “cucina asiatica”: in genere questi luoghi hanno liste sterminate di piatti che partono da quelli cinesi e finiscono con proposte di cucina thailandese e vietnamita. Attenzione, non è detto che si mangerà male, ma difficilmente si potrà mangiare un buon sushi. Per capire il perché, basta ribaltare la questione e provare ad immaginare un ristorante di “cucina europea”, dove lo stesso chef prepara le lasagne alla bolognese, la paella alla valenciana e escargots à la bourguignonne…

E arriviamo al riso: un sushi a regola d’arte si riconosce dal riso, quello dei nigiri o degli uramaki, che deve essere leggermente profumato di aceto e deve presentarsi compatto senza essere mai appiccicoso o croccante. L’utilizzo delle tipiche bacchette di legno (hashi) non deve trarre in inganno sulla qualità del riso: molte volte il solo fatto di non riuscire ad afferrare con le bacchette il “boccone” senza che si sfaldi può portare a pensare che il riso non sia ben fatto ma a questo proposito va saputo che nella tradizione giapponese il sushi viene mangiato con le mani proprio perché la consistenza del riso, non troppo appiccicosa, si presta benissimo a essere consumata come una sorta di finger food.

E il wasabi? Utilizzata come accompagnamento del sushi, questa “pasta” deriva da una rara piantina difficile da coltivare, chiamata Wasabia Japonica. Ecco perché spesso nei ristoranti giapponesi troviamo dei meri surrogati a base di radice di rafano e colorante verde. La qualità del wasabi si può riconoscere dal fatto che la radice è grattugiata al momento e il gusto, in ogni caso fortissimo, è più profumato e meno acre.

Sulla salsa di soia va detto che è preparata con tre ingredienti semplicissimi: semi di soia, sale e acqua fermentati per mesi attraverso il formarsi di muffe particolari. Un buon ristorante di giapponese quindi dovrebbe servirla fresca e non già confezionata, ma soprattutto spiegare il corretto modo di utilizzo: frequentissimo è infatti l’errore di metterla sul lato del riso! Va invece versata su quello del pesce per esaltarne il sapore.

Da ultimo riflettiamo sul tempo perché anche questo è un aspetto molto importante per mangiare un buon sushi: una volta che il piatto è pronto, dovrebbe essere consumato immediatamente (entro 15 secondi), prima che il riso si raffreddi (e diventi molliccio) e il pesce si riscaldi. Questo tipo di servizio può essere garantito solo nei sushi bar o nei ristoranti dove la preparazione avviene espressa e spesso anche davanti agli occhi del cliente quindi … diffidate di quei piatti belli e pronti su nastri trasportatori in attesa di essere consumato chissà quando.

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