Tutte le provocazioni degli chef, piccolo viaggio dalla Spagna alla Romagna

Dal capezzolo da “succhiare” fino all’insalata da mangiare con le mani

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Il piatto “Ama” di chef Andoni Luis Aduriz

Giorni fa ha fatto capolino per mano di una importante testata un curioso articolo riguardante il piatto di un noto chef spagnolo. Trattasi di un seno. Sì, avete letto bene. Chef Andoni Luis Aduriz, basco per la precisione, presenta nel suo ristorante Mugaritz, due Stelle Michelin, un menù dedicato al tiepido la cui conclusione è per l’appunto “Ama”, parola che significa sia “amare” che “madre” e che consiste in un calco di silicone a forma di seno da cui suggere un liquido lattiginoso, moderatamente dolce e – appunto – tiepido, che ricrea quell’atto ancestrale che tutti ci accomuna. Spiega lo chef: «Bisogna succhiare il contenuto dello stampo direttamente dal capezzolo facendo pressione con le mani per spingere fuori il liquido. È come latte diluito, dolce e salato insieme, e tiepido». Apriti cielo. “Al tavolo c’è un po’ di imbarazzo – si legge nell’articolo del Gambero Rosso – qualcuno è divertito e un po’ a disagio, qualcuno infastidito. Ma provano tutti. Agli altri tavoli ci sono reazioni diverse, qualcuno si rifiuta, qualcuno crede di dover mangiare lo stampo e lo morde, qualcun altro se ne va: vede una provocazione di troppo”. Troppo audace? Troppo attuale? Eppure, a pensarci, la provocazione in cucina ha origini lontane. Senza scostarsi di un centimetro dall’imbeccata iniziale vien subito spontaneo citare le Minni di virgini siciliane che a Sambuca (Ag) si preparano dal 1700.

La cucina è un gioco, il gioco ci fa tornare bambini a tavola. Pensiamo allo Zabajone. Pellegrino Artusi ci racconta di come tenendolo a bagnomaria debba “frullare allegramente” per renderlo bello spumoso, e di quanto vino di Cipro o Madeira aggiungere per renderlo “spiritoso”. Va da sé che anch’esso per la sua natura di rimedio corroborante e di conforto si sia sempre prestato ad associazioni libere in chiave prettamente allusiva. Adriano Banchieri, nato a Bologna nel 1568, musicista, compositore e poeta del tardo Rinascimento, fu un importante compositore di canzonette, tra cui la boschereccia a cinque voci del 1604, Il Zabaione Musicale, della quale riportiamo l’introduzione: «Già che ridotti siamo / Chi fa il soprano? / Io che lo tengo in mano / Questo contralto? /Ecco de fuori salto / Ecco il tenore! / Voi per nostr’amore / Chi canterà il falsetto? / S’io il conto avrò diletto / Chi canterà il basso / Io il canterò per spasso / Hor, concertati per recreazione / gustiamo questo dolce Zabaione».

Tornando invece ai ristoranti e ai nostri giorni, gli esempi che potrei riportare sono davvero tanti. Ricordo la mia prima visita alla splendida Certosa di Maggiano, Relais & Châteaux e ristorante stellato a due passi da Siena, dove lo chef Paolo Lopriore – allievo prediletto di Gualtiero Marchesi – dispensava provocazione ed esercizio di stile a iosa. Il suo diktat era di rendere protagonista il gusto dell’amaro e dell’acido, che poi rappresentano lo stadio maturo del nostro palato, a differenza del dolce dal quale siamo partiti, anche in questo articolo. Piatti come il monocromo di scampi dove l’amaro del pompelmo entrava a gamba tesa lasciando lì per lì l’avventore magicamente spiazzato. Ricordo che nel mezzo della cena confidai allo chef che la mia sensazione era che volesse far fare ginnastica al mio palato; il suo sorriso subitaneo confermò la mia intuizione. Il bassorilievo di seppia sembrava un mosaico nell’incastonarsi di carni bianche e parti nere. Se poi intercalava con qualche classico toscano come il peposo o il cinghiale in dolceforte ecco che a contrasto faceva capolino un fasolaro crudo: geniale. E ancora, la celeberrima insalata da mangiare con le mani e dove il condimento era rappresentato dalla varietà stessa delle misticanze: l’amaro della ruta, il piccante della rucola, l’agro dell’acetosella per un numero superiore alle venti varietà e un tocco di zenzero e wasabi a suggello.

Piatto reinterpretato anche dall’altro talentuosissimo figlioccio del Maestro, dove al Piazza Duomo di Alba (Cn), tre Stelle Michelin, le erbe aromatiche scandivano l’alternarsi di frutta e verdura in uno sciroppo nel minestrone servito come dessert.
Al Gambero Rosso, due Stelle a San Vincenzo (Li), mi capitò una situazione inusuale: al cospetto di chef Fulvio Pierangelini che mi chiese cosa gradivo, risposi che ero pronto a tutto. Lui, burbero, ribattè prontamente che non era affatto pronto a tutto e che voleva invece che gli ordinassi precisamente. E anche lì, gli schemi della normalità furono rotti da una capasanta con la mortadella…

Al Restaurante Ferrero, dal nome del celebre tennista specialista della terra battuta, lo chef Paco Morales (una Stella) mi propose un piatto chiamato “le parti più nobili del maiale”. La provocazione? Si trattava al contrario di tutto il quinto quarto e gli scarti, con una consistenza fatta di collageni che mi lasciarono le labbra appiccicaticce: sublime.
Venendo alla nostra amata Romagna invece non posso non citare un paio di locali. Al Povero Diavolo di Torriana, una Stella Michelin sopra le colline riminesi, lo chef Piergiorgio Parini era un fervente ammiratore di chef Andoni: non a caso fu lui diversi anni or sono che me ne fece il nome. Soprannominato dai francesi “le roi des herbes”, proponeva un dessert a base di sole erbe aromatiche, su tutte il levistico (sedano selvatico) e Chartreuse, un liquore francese preparato da monaci benedettini che include una varietà di oltre cento erbe: un piatto che fece parlare tutta Italia e non solo. Ricordo che in occasione di un menù di San Valentino presentò come predessert una vera e propria palla di neve ripiena di salsa di lamponi. E anche “Narce, l’animale che non c’era” dava per consistenza e aspetto l’idea del suo anagramma, ma si trattava in realtà di anguria marinata e non di carne…

Irvin Boca

La battuta di castrato dello chef Irvin Zannoni

Al Boca Barranca di Marina Romea viene proposta una “battuta di castrato come se l’avessimo grigliata” dove il grasso viene usato per condire la tartare e in accompagno sferificazoni di olio bruciato al rosmarino… Il risultato è quello di trovarsi le labbra untuose e le narici pregne come quando si gusta il castrato alla romagnola. Infine forse il più ardito degli arditi, il Noma di Copenaghen, già tre Stelle Michelin e più volte eletto miglior ristorante al mondo, dove i cuochi escono dalla cucina per fare il servizio in sala. E allora capita che la provocazione sia che il piatto te lo cucini tu, con un uovo di anatra, una piastra rovente e una serie di vegetali muschi e licheni locali, con lo chef- cameriere che ti guida passo passo naturalmente. O ancora nell’entrée di gamberetti che una volta aperto il barattolo col ghiaccio guizzano fuori ancora vivi. Troppo? Probabile. Ma allora, provocazione per provocazione, potrei anche criticare i più che per anni si sono leccati le dita per un flan semicrudo solo perché con il “cuore di cioccolato caldo” o per mediocri granchi solo perché di colore blu.
E tu, di che provocazione sei?

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