La storia della vongola adriatica, elogio della “poverazza”

Dagli antichi romani alla giusta rivalutazione degli anni cinquanta

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Un tempo, nei giorni di mare grosso, quando le barche restavano ancorate e i pescherecci non potevano sfidare le onde, le comunità costiere si trasformavano in un brulicare di pescatori improvvisati. Bastava un semplice “oggi va male!” per mobilitare grandi e piccoli, uomini e donne, in una sorta di rituale collettivo. La battigia diventava un campo di caccia, e lì, tra un pezzo di legna trascinato dalla marea e un po’ di poverazze “imbambinite” dai flutti, si trovava sempre qualcosa per il desco quotidiano. Il mare, allora, era generoso anche a riva: nelle acque basse, un ferro, un rastrello e una schiena curva (“a culo busoni”, come si dice in dialetto) bastavano per riempire un secchio e garantire un pasto.
Questo quadro, che oggi può sembrare bucolico o nostalgico, appartiene alla tradizione più autentica della Romagna. Ed è proprio qui che inizia la storia della vongola adriatica, un mollusco che ha accompagnato la vita dei popoli rivieraschi per secoli. Le testimonianze della sua presenza sulle tavole sono antiche: i primi riferimenti compaiono già nei documenti del XIV secolo, tra statuti cittadini, trattati di culinaria, dietetica e medicina, e perfino nelle mercuriali, a dimostrazione del suo importante ruolo nell’economia locale. Il termine stesso, vongola, è relativamente recente e ha progressivamente sostituito la miriade di appellativi regionali: puràz, puràza, puràcia, peverazza, bevarassa, bibarassa.

Eppure, l’uso della vongola era già radicato molto prima che la lingua ufficiale ne fissasse il nome. Gli antichi romani, grandi conoscitori dei frutti del mare, ne apprezzavano la delicatezza e i benefici nutrizionali, integrandola nella dieta e celebrandola nelle loro elaborate ricette. Nei secoli successivi, la vongola ha continuato a rappresentare non solo una risorsa alimentare, ma anche un simbolo di resilienza e ingegno: un frutto del mare che, tra mareggiate e basse maree, ha saputo raccontare il legame profondo tra l’uomo e il suo ambiente. La sua raccolta, dal tardo medioevo fino al secolo scorso, non solo si praticava con le mani lungo le rive, ma anche con l’utilizzo di barche e di un particolare strumento (ferro armato) per la loro estrazione anche in acque profonde. Nel corso del Sei-Settecento poi, si aggiunse a bordo uno speciale argano per la migliore gestione del ferro estrattivo, mentre solo dopo la metà del Novecento si affermò il moderno sistema delle turbo soffianti collocato su motonavi.

L’abbondanza della pesca rendeva questi molluschi un cibo ordinario, destinato a sfamare i ceti poveri della società e ancora nei primi decenni del Novecento, molto di rado, finivano sui banchi di pescheria. Se poi ci arrivavano, venivano venduti a un centesimo al chilo, a sacchetti. A riprova di questo scarso valore ci sono anche testimonianze che segnalano l’utilizzo dei gusci, che si accumulavano in montagnole nei cortili delle case del litorale, per “inghiaiare” le strade. Solo dagli anni Cinquanta si riscontrò una rivalutazione del prodotto e la sua promozione culinaria, unitamente all’evoluzione delle tecniche di pesca per il loro prelievo nei fondali sabbiosi attraverso mezzi meccanici innovativi. Venendo ora alle denominazioni “poverazza, poveraccia”, affermatesi soprattutto fra Marche e Romagna, va detto che le ipotesi sono due. Da una parte queste parole starebbero a indicare la categoria principale dei suoi consumatori, rilevabile peraltro anche dal detto, rimasto in uso fino a tempi recenti e collegato ai tariffari del prodotto ittico che le indicava come genere senza valore, sia dal punto di vista commerciale, sia nutritivo e gastronomico: “purèt” (poveretto) chi le pesca, purèt chi le vende, purèt chi le mangia. Dall’altra parte c’è chi afferma che questi termini non abbiano niente a che vedere, etimologicamente parlando, con la povertà: infatti puraza (o puvraza) deriverebbe da peverazza che a sua volta deriva da pevere, ovvero pepe. Ciò perché la valva della vongola nostrana ha il colore del pepe macinato grossolanamente.

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LA RICETTA
La polenta con le vongole
Ingredienti per 3 persone: 500 grammi di vongole poveracce; 1 spicchio d’aglio; 1 mazzetto di prezzemolo; 200 grammi di pomodori pelati; 200 grammi di farina di mais; 1 litro di acqua; sale marino integrale; pepe macinato al momento. Preparazione. Far spurgare le vongole in acqua fredda e salata per almeno 1 ora. Nel frattempo preparare la polenta versando a pioggia la farina nell’acqua bollente salata. Mescolare con la frusta per un minuto poi mettere la fiamma al minimo, coprire con il coperchio e lasciar cucinare 45 minuti. Successivamente, aprire le vongole in una padella ben calda con un filo di olio, uno spicchio di aglio e i gambi del prezzemolo. Verificare che siano tutte aperte, spegnere la fiamma e farle intiepidire. Sgusciarle tutte e filtrare il liquido di apertura. Ora, in una casseruola versare qualche cucchiaio di olio extravergine d’oliva e aggiungere il prezzemolo e l’aglio finemente tritati. Lasciare soffriggere appena, aggiungere i pelati e schiacciarli con la forchetta. Protrarre la cattura per 25/30 minuti poi aggiungere le vongole sgusciate e il loro liquido. Mantenere sul fuoco ancora per un paio di minuti poi spegnere.
Per la composizione del piatto, distribuire la polenta nei piatti, aggiungere il condimento e terminare con un giro d’olio a crudo, una macinata di pepe e un po’ di prezzemolo tritato fresco.

I piatti della tradizione
Lungo le coste dell’Adriatico, le vongole erano l’ingrediente chiave di molte ricette tradizionali, nate dall’ingegno delle famiglie marinare che trasformavano un raccolto modesto in piatti saporiti. Una delle preparazioni più diffuse era la zuppa di vongole, semplice ma nutriente: vongole fresche cotte con aglio, prezzemolo, olio e servite su fette di pane raffermo, spesso tostate. In alcune varianti, si aggiungeva un po’ di vino bianco, pepe e pomodoro per creare una versione più ricca e colorata.
Un altro uso comune era l’abbinamento con piatti poveri come la polenta, su cui si versavano le vongole cotte nel loro stesso liquido, talvolta accompagnate da un filo d’olio crudo.
Nelle giornate più fredde, si preparavano minestre di legumi o verdure, arricchite con il sapore del mare: ceci, fagioli, patate o cicoria trovavano un connubio perfetto con le vongole.
Non mancavano poi i sughi, pensati per condire pasta fresca fatta in casa, come tagliolini o strozzapreti, conditi con il loro liquido di cottura e impreziositi da erbe aromatiche locali come il prezzemolo, il timo o il finocchietto selvatico. Queste ricette, spesso tramandate oralmente, testimoniano l’ingegno e la sostenibilità di una cucina che celebrava il mare e i suoi doni con autenticità e rispetto.

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