Tutti i volti di Guerrini-Stecchetti, dai sonetti agli avanzi in cucina

Intervista allo storico e scrittore Piero Meldini

Olindo Guerrini

Gran letterato e intellettuale, ma allo stesso tempo gran provocatore, ironico e anticonformista, Olindo Guerrini (Forlì, 1845 – Bologna, 1916) con i suoi diversi volti e diversi nomi, seppe intrecciare l’altissima accademia con il “letterariamente profano” come il dialetto romagnolo e la cucina “degli avanzi”.
In occasione delle celebrazioni del centenario della morte abbiamo parlato di Olindo Guerrini con Piero Meldini, già direttore della Biblioteca Gambalunga di Rimini, storico e scrittore di numerosi saggi e romanzi, particolarmente esperto di cultura e storia della gastronomia.

Che tipo di persona – o di persone – era Olindo Guerrini?
«Era un personaggio all’epoca notissimo, conosciuto soprattutto con gli pseudonimi di Lorenzo Stecchetti e di Argia Sbolenfi. Stecchetti era il personaggio che si era inventato, di un giovane poeta morto a 31 anni di tisi. Guerrini fingeva di essere l’amico che aveva raccolto i suoi versi. Un altro pseudonimo era quello della poetessa e cuoca Argia Sbolenfi, con cui si divertì a pubblicare poesie con doppi sensi, sguaiate che parevano liriche di una ninfomane».
Come mai utilizzava tutti questi pseudonimi?
«A Guerrini piaceva molto fare scherzi. Pubblicava operette su Foscolo e Leopardi attribuendole a un editore di Bologna, scrivendo cose sulla loro vita totalmente inventate. C’era in questi scherzi anche un elemento perturbante. Basti pensare che la sua prima raccolta, che era totalmente seria, si chiama Postuma perché firmata da Lorenzo Stecchetti. Guerrini era un allievo di Carducci, era quindi ostile alla poesia dell’ultimo romanticismo, quello estremo. Questa raccolta invece è scritta nel più delirante degli stili vicino al maledettismo francesce a alla scapigliatura. Da una parte, come critico ed erudito, criticava aspramente un genere di poesia che poi scriveva lui stesso sotto pseudonimo… Una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde. Era un modo di scrivere molto contraddittorio e moderno, basti pensare al portoghese Pessoa, che inventò quattro o cinque suoi eteronimi con cui scriveva in maniera totalmente diversa a seconda della personalità di un suo diverso doppio».
Come tematiche era spesso lontano dai temi classici…
«Ha scritto alcune poesie molto spinte per l’epoca, altre molto dure, come quelle che contenevano maledizioni alle ragazze che non avevano ricambiato il suo amore: “morta tu giacerai dimenticata”».
Ma anche la scelta di scrivere in dialetto era ben poco ortodossa.
«Nella scrittura non c’era una tradizione del dialetto in romagnolo nell’800. I suoi Sonetti, poesie molto spiritose nel dialetto di Sant’Alberto di Ravenna, lo fecero diventare molto noto, ma dall’altra parte erano considerate letteratura marginale. Creava cose inedite, che non facevano gli altri, era anticonformista. La sua scrittura era lontana dall’establishment della letteratura dell’epoca. Lui era un noto studioso, era direttore della biblioteca universitaria di Bologna, ma si teneva lontano dal mondo accademico, anche se ne faceva parte».
Tra bibliotecari…
«Grande simpatia… Era un anticlericale, con spirito bonario e goliardico. Anche io ho fatto cose differenti dallo studioso rigoroso. E scritto su molte cose come la gastronomia e la sua storia».
Le biblioteche mettono appetito?
«Oppure lo saziano del tutto… Oggi le biblioteche sono diventate soprattutto un luogo di studio dei propri libri in periodo scolastico. Ma conservano un patrimonio bibliografico vastissimo che mi pare sia un po’ sprecato. È come andare in un ristorante stellato portandosi un panino da casa…».
A proposito di ristoranti, come si avvicinò Guerrini alla gastronomia?
«Era molto appassionato della cucina in modo erudito, ma anche della cucina cucinata. Aveva iniziato a interessarsi al tema pubblicando un codice trecentesco di ricette e divenne poi un collezionista di antichi ricettari».
Come nasce il rapporto fra Guerrini e Artusi?
«Artusi mandò una copia della terza edizione del suo La scienza in cucina a Guerrini. Era come mandare un libro a Umberto Eco, era molto noto all’epoca. Se non ché Guerrini ne aveva già acquistato già due copie. Gli era piaciuto molto il concetto, ma soprattutto il linguaggio di Artusi. Finalmente c’era un libro di cucina in buon italiano, in un linguaggio semplice ed efficace. Prima erano volumi per professionisti, scritti con i piedi, con termini tecnici storpiati dal francese, un po’ come quegli obbrobri che si sentono oggi in tv tipo “impiattare” o “risottare”».
È vero che collaborò con Artusi per le edizioni successive del suo celebre ricettario?
«Tra i due nasce un rapporto epistolare di 19 lettere scritte tra 1896 e il 1906 in cui Guerrini suggerisce ricette, correzioni, e fa da mentore. Si ritiene più colto di Artusi e gli da delle lezioni. Artusi a volte accoglie i consigli a volte se ne frega. Artusi arricchiva di edizione in edizione il manuale grazie alla corrispondenza con molte persone, soprattutto signore esperte di cucina domestica. Artusi provava tutte le ricette, poi le modificava un po’, e se gli piacevano le pubblicava».
Quali sono le ricette de La scienza in cucina riconducibili a Guerrini?
«Sono sei ricette che Gerrini aveva trovato in ricettari antichi, come la “zuppa alla Stefani”, tratta dal manuale seicentesco di Bartolomeo Stefani. Infatti, Artusi apre quel capitolo dicendo “guardate come si mangiava a quel tempo”, come si trattasse di una curiosità».
Come nasce invece il libro di Guerrini L’arte di utilizzare gli avanzi della mensa?
«Guerrini consigliò ad Artusi di mettere una appendice al libro sull’arte di cucinare dedicata agli avanzi. Artusi non la scrive, allora ci si mette lo stesso Guerrini, ripescando e “ricucinando” ricette antiche, per poi trascriverle in una raccolta autonoma. Ma il suo ricettario non diventò mai un best seller come quello di Artusi».
Immagino che il concetto di “avanzi” cento anni fa fosse molto diverso da quello che abbiamo oggi, considerando anche che nelle case non c’era il frigorifero…
«Esatto, gli avanzi erano ciò che rimaneva dai grandi banchetti tenuti dalle persone benestanti. Guerrini suggeriva di fare grandi cene, così da poter mangiare con gli avanzi per una settimana, ma si riferiva ovviamente a un pubblico benestante. Alla maggior parte delle persone, in quegli anni, di avanzi non ne restavano, anzi era già tanto se avevano da mangiare, e quel poco che c’era veniva puntualmente consumato».
Ma quello di Guerrini fu un ricettario utilizzato?
«No, si trattava di un libro per eruditi, fu pubblicato postumo dai suoi eredi e divenne un libro per curiosi o esperti. Guerrini si era ispirato ad opere simili già pubblicate in Francia».
L’Artusi invece potrebbe essere considerato, seppure con un livello letterario molto più alto, il primo dei ricettari che oggi vendono tanto in libreria?
«Sicuramente quello di Artusi fu e resta un vero best seller: arrivò a 14 edizioni e vendette decine di migliaia di copie, una cifra folle per quel tempo. Le ricette di Artusi entrarono a far parte della cultura popolare, venivano trascritte e passavano di casa in casa, tra domestiche e cuoche, tanto che molti si convinsero che queste ricette fossero della propria famiglia, per poi accorgersi che invece erano arrivate indirettamente dalle pagine de La scienza in cucina».

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