Nel sacchetto o lorda, la “minestra” di Romagna che viene dal passato

Antiche ricette per piatti fatti in casa, figli della cultura contadina

“La vita è una combinazione di magia e pasta”
(Federico Fellini)

Considerata la buona disponibilità di cereali da parte delle famiglie contadine di un tempo, tra i piatti di riferimento della tradizione gastronomica della Romagna troviamo senza dubbio la pasta fatta in casa, quella che in passato costituiva un’importante fonte giornaliera di carboidrati e proteine per coloro che dovevano affrontare il duro lavoro quotidiano dei campi. Ma attenzione! Da sempre qui da noi si chiama “minestra”, sia essa asciutta che in brodo.
Tante sono infatti le minestre che hanno reso famosa la nostra cultura nel mondo ma ce ne sono altre che, forse per a loro estrema povertà, si sono quasi completamente perse, dimenticate nei quadernini scritti a mano dalle nostre nonne o nella tradizione tramandata oralmente.
Oggi proveremo a ricordarne alcune, a ripercorrere la ritualità di una paio di piatti che sono certa meriterebbero di essere riportati in auge.
ImperialeE cominciamo dalla minestra nel sacchetto (minestra nel sacco o semplicemente minestra al sacco). Questa è una ricetta davvero molto antica, tipica delle colline che separano la Romagna dall’Emilia. Vi dirò di più, con molte varianti, è presente anche nelle lontane consuetudini contadine di tutto il nord e non solo: anche nella tradizione partenopea si può trovare qualcosa di simile. Si tratta di una preparazione molto vicina alla zuppa imperiale tanto che molti autori pensano che questa sia la sua versione originaria e che si sia modificata nel tempo fino a quella odierna. Nello specifico si tratta di una zuppa composta da brodo di carne nel quale si cuoce un impasto simile a quello dei passatelli ma più ricco di uova e quindi più morbido. E proprio perché così morbido, l’unico modo di metterlo nel brodo era quello di contenerlo in un sacchetto di stoffa (solitamente tela fatta in casa o lino) in modo da bloccarne la fuoriuscita durante l’ebollizione. Una volta cotto si ottiene un simil polpettone che viene poi tagliato a cubetti e servito nel suo brodo. Solo un’ultima cosa: ricordo che la mia nonna ne preparava in quantità e poi seccava i piccoli cubetti di minestra all’aria. Nei giorni a venire era sufficiente farli rinvenire nel brodo.
SpojalordaVeniamo ora alla spoja lorda che si dice essere nata sulle prime colline del faentino, nei pressi di Brisighella ma di questo non ci sono conferme inconfutabili. Una cosa che invece è certa è che sia una minestra romagnola doc! In passato era preparata soprattutto per recuperare la pasta (sempre tanta rispetto al compenso, il ripieno) che rimaneva dopo la preparazione dei cappelletti di magro. Ecco allora che si allungava con il latte quel poco di ripieno che c’era e si spalmava, quasi a sporcarla, la tanta sfoglia oramai tirata a matterello. Quindi la si ripiegava su se stessa a coprire completamente il compenso, eventualmente si pareggiava con il matterello o con le mani ma senza premere troppo per non fare uscire il ripieno, quasi solo per disporlo equamente su tutta la superficie e per far uscire eventuale aria. Poi si chiudevano i bordi esterni e con la rotellina della minestra (la sprunella) si ricavavano  piccoli quadrati di circa un centimetro e mezzo di lato. Infine li si cala nel brodo bollente. Certamente qualcuno si apriva e sporcava il brodo con un po’ di compenso ma … è questo un altro motivo del perché si chiamava spoja lorda: “lordava” il brodo. Un’ultima considerazione: dal momento che mille, in Romagna, sono le versioni del compenso dei cappelletti, mille sono di conseguenza quelli della spoja lorda: per certo serve del formaggio fresco tipo ricotta, raviggiolo o squacquerone, poi formaggio stagionato grattugiato, uova e noce moscata, il tutto allungato con latte fino a renderlo una crema.
Concludiamo con i giugetti (giugèt), una minestra contadina tipica della fine dell’inverno quando le provviste iniziavano a scarseggiare. Si tratta di quadratini di pasta ottenuta impastando con l’acqua (rigorosamente senza uova) una miscela di farina di mais e di grano tenero. Tradizionalmente venivano cotti in un brodo vegetale arricchito di fagioli e patate.

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