Disinvolta, sensuale, spensierata Art Déco

In visita alle 15 sezioni in cui è articolata la prima grande mostra sul tema, ai Musei di San Domenico a Forlì

Felice Casorati, “Maschera nera Maschera rossa”

Basterebbero le linee sinuose e il blu metallizzato dell’Isotta Fraschini di D’Annunzio in esposizione ai Musei di San Domenico a decretare profeticamente il successo della mostra “Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia appena inaugurata a Forlì”.
Assecondando una linea progettuale di appuntamenti espositivi che è partita nel 2012 con la mostra dedicata a Wildt – seguita da quelle dedicate all’Arte fascista, al Liberty, a Boldini e a Piero della Francesca, visto soprattutto dagli artisti degli anni ’20 e ’30 – l’esposizione attuale conclude un ciclo che esplora l’arte nei primi decenni del secolo breve. Le sintonie non sono solo con la storia del territorio romagnolo ma corrispondono a un interesse crescente verso questo stile trascurato per decenni, testimoniato oggi da un interesse del mercato antiquario e dalla ripresa del Déco nell’arredamento e negli accessori contemporanei. Riviste ed esposizioni di mobili ripropongono le geometrie di questo stile attento ai materiali pregiati e al dettaglio. Nato a una decina di anni di distanza dalla prima guerra mondiale, Il Déco trovava grande diffusione in Europa e negli Stati Uniti a seguito della sua definitiva consacrazione a Parigi nel 1925.
Se si valuta la corrispondenza con l’Art Nouveau, il Déco mantiene una stretta collaborazione fra industria e arte, ed evita di distinguere fra arti maggiori e applicate, conservando l’attenzione ai materiali. Rispetto alle linee floride e floreali del Liberty – la declinazione italiana dell’Art Nouveau – c’è invece una preferenza verso andamenti geometrici che superano le curvilinee e il decorativismo passati. Grazie all’influsso delle Avanguardie o al recupero (tutto italiano) del classicismo o di alcuni stilemi settecenteschi, mediante le spinte del Razionalismo o dell’eredità più geometrica della stessa Art Nouveau, Il Déco si presenta come un linguaggio di sintesi. Nonostante le versioni differenti nei vari paesi, in comune c’è una più diretta vocazione estetica alla modernità e al lusso, al ritmo veloce delle metropoli e ai suoi segnacoli contemporanei come grattacieli, aerei, transatlantici e automobili. Si ritorna quindi all’Isotta Fraschini, un bolide azzurro metalizzato che con la possibilità futuristica per i tempi di viaggiare a 150 km. orari incarna il lusso e la spensieratezza delle feste organizzate dal Grande Gatsby.

Una delle opere esposte, di Tamara de Lempicka

La mostra di Forlì – la prima in Italia dedicata con questa ampiezza al Déco – cerca di rendere al meglio la pluralità di questi linguaggi e delle esperienze che costituiranno le radici del Made in Italy. Si cerca quindi di rendere questo complesso panorama attraverso 15 sezioni espositive che si articolano fra le radici del movimento e la sua crisi, i cui segni si evidenziano già nel momento del suo massimo splendore. L’estensione – sono più di 400 le opere e gli oggetti esposti – è il punto di forza della mostra ma anche la sua debolezza: la moltitudine di influssi, temi, consonanze e scambi, visioni e tendenze che si espandono per più di 15 anni, anche se con un vincolo geografico, viene rispettata attraverso un’analisi lodevole che però rischia di sommergere di dati e oggetti lo spettatore, per quanto attento. Il senso dell’insieme è a rischio per una serie di rimandi fitti, in alcuni casi apparentemente poco giustificati.
La prima sezione illustra le radici secessioniste ed espressioniste del Déco, fra opere conosciute di Wildt, Libero Andreotti, Gio Ponti e Duilio Cambellotti a cui si accompagnano produzioni interessanti – non sappiamo quanto effettivamente influenti nel panorama italiano – dello scultore croato Ivan Meštrović, attivo soprattutto nel suo paese prima del trasferimento negli Stati Uniti. La raffinatissima e grottesca modalità scultorea di Wildt –  evidente nell’Anima dei padri (1922) – mantiene un forte espressionismo in altre opere più geometriche e decorative (La concezione 1921-22): rimane però da dimostrare come sia questa produzione a costituire un suggerimento per le sculture di Felice Casorati (Maschera nera, maschera rossa 1914) sia per una questione di tempi che per un collegamento che pare più stretto col primitivismo frequentato dalle Avanguardie europee, mediato dai contatti con gli artisti di Ca’ Pesaro.

Più lineare risulta la seconda sezione della mostra, dedicata alle quattro esposizioni di arte decorativa allestite a Monza fra 1923 e il 1930: nonostante dispiaccia non vedere illustrate le edizioni successive delle Triennali di Milano – esito naturale delle precedenti – le opere esposte rendono il polso creativo e multidirezionale di quegli anni. Nelle stanze si possono quindi vedere alcune tarsie di tessuto realizzate da Fortunato Depero (Danza di diavoli, 1922; Lizzana, 1923), in cui il linguaggio del secondo Futurismo alimenta una vena ironica, funambola e coloratissima, accanto ad uno splendido vaso di vetro soffiato di un giovanissimo Carlo Scarpa (1927) e ad alcune maioliche di Gio Ponti del 1923, lo stesso anno in cui l’architetto iniziava la sua collaborazione con la ditta Richard-Ginori. Anima fra le più interessanti del panorama nazionale di quegli anni, Ponti rinnovava così l’iconografia e lo stile della tradizione ceramica, prendendo spunti dal classicismo e dalle Avanguardie, dalla Metafisica, mescolandoli con eleganza a elementi del Manierismo e del Neoclassicismo.

Adolfo Wildt “La concezione”

Segue la sezione dedicata ai rapporti fra arte, industria e artigianato con un approfondimento dedicato alle tecniche e ai materiali. Grazie ai bozzetti e agli oggetti di Galileo Chini, ai figurini di Thayaht (Ernesto Michahelles), ai tessuti di Marcello Nizzoli e alle opere in ferro battuto di Carlo Rizzarda si comprende il rapido evolversi di un rapporto ambiguo e fecondo fra oggetto unico e produzione seriale, quando lo sviluppo industriale, avviato da pochi decenni in Italia, cerca di stare al passo con l’idea di una progettazione che ha come scopo una vita più comoda e bella per più persone. Nella sezione dedicata all’architettura, i progetti di Gio Ponti inseriscono la solita ricerca classicista dell’identità italiana sulle matrici del Razionalismo, senza piegarsi a soluzioni troppo radicali (Ange Volant, 1926, Garches, Francia) mentre le numerose riviste nate e fiorite in questi anni – da “Casa Bella” a “Domus” – mostrano l’ecletticità di progetti votati a recuperi dal passato, a influssi secessionisti oppure a soluzioni utopiche (Portaluppi, grattacielo S.K.N.E. di New York, 1920).

Da qui la mostra conduce all’omaggio a D’Annunzio da cui è iniziato il nostro itinerario, snodandosi fra influssi orientali, evidenti in numerose scenografie teatrali e costumi per la Turandot o negli arredi di Galileo Chini per le Terme Berzieri di Salsomaggiore (1918-23). Alimentati da viaggi in Oriente – è il caso del soggiorno di Chini a Bangkok – o da scoperte archeologiche come la tomba di Tutankhamon nel 1922), è evidente come in manifesti, ceramiche, scenografie e sculture vengano stratificati elementi decorativi orientali o le loro reinterpretazioni occidentali.
Le sezioni seguenti – cadenzate sugli arredi degli interni e sul tema del viaggio, sulla ritrattistica e gli influssi della mostra di Parigi del 1925, sulla nostalgia dell’antico e i miti ricorrenti (Orfeo, il Paradiso perduto, la Venere moderna e la donna Déco) – risultano affascinanti per la presenza di oggetti poco visibili come i prodotti di Alfredo Ravasco, i decori interni delle carrozze letto ferroviarie inglesi (1926), le poltrone del translatantico Normandie (1935), o gli abiti indossati da Franca Florio negli anni ’20. La raffinatezza dei particolari e il luccichio dei materiali sono lo specchio in cui si riflette una società disinvolta, sensuale e spensierata, di cui si apprendono i tratti imbronciati e narcisisti nei ritratti di Tamara de Lempicka. Le ultime sezioni dedicate alle ambiguità e alla crisi del Déco dicono poco di più di quanto già sia scritto nelle bellissime e gelide donne ritratte dall’artista polacca.

Art Déco – Gli anni ruggenti in Italia
Fino al 18 giugno a Forlì,
Musei San Domenico
Da martedì a venerdì: 9.30-19;
sabato, domenica, festivi: 9.30-20.
La biglietteria chiude un’ora prima
Lunedì chiuso,
tranne 17 e 24 aprile e 1 maggio
Info: www.mostradecoforli.it
e tel. 199.15.11.34

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