Manifesto, estetica da vedere e da godere. Un film che è un’opera d’arte

ManifestoMessa in scena contemporanea e ferocemente ironica per 13 personaggi che recitano un collage di movimenti artistici

Da anni, l’arte usa il mezzo cinema. E il cinema stesso, un secolo fa, tra gli anni ’20 e ’30, sviluppò e approfondì il suo legame con le avanguardie artistiche (vedi Luis Bunuel, Marcel Duchamp, Fernand Léger, Man Ray, Dziga Vertov, ecc.). Da quel filone proviene molta dell’arte contemporanea, in quelle che sono oggi le installazioni video; arte che è fatta di cinema, e si distingue dal cinema in quanto non è pensata come flusso narrativo convenzionale, ma secondo le proprie forme estetiche ed emozionali; che non viene fruita in sala o in televisione o in dvd, ma nelle gallerie e nei musei; che non viene venduta in quanto “entertainment”, bensì come “unicum” artistico, pur se replicabile.
A novembre è uscita finalmente un’opera che parte dall’arte e arriva al cinema: Manifesto, dell’artista tedesco Julian Rosefeldt, interpretato da Cate Blanchett.

Manifesto nasce come una monumentale video installazione che ha girato musei e galleria dal 2015 a oggi, e che è stata rimontata come film presentato al Sundance 2017. Il titolo è precisissimo: il film ha come “trama” i manifesti nella storia dell’arte (e della politica), in quanto momenti essenziali della produzione teorica delle correnti artistiche del ‘900, sviluppati in 13 segmenti narrativi atipici nei quali, in diverse situazioni e personaggi, Cate Blanchett recupera il suo meraviglioso multiruolo di Bob Dylan in Io non sono qui di Todd Haynes. Perché sono 13 i personaggi interpretati dalla Blanchett, 13 personaggi che recitano, in forma di monologo, un collage di numerosi manifesti d’artista, immersi in una messa in scena contemporanea e ferocemente ironica: a ogni personaggio uno scenario; e a ogni scenario un movimento artistico.

Una homeless si aggira dentro una fabbrica abbandonata declamando il Manifesto del Partito Comunista di Marx, insieme al Manifesto Dada di Tristan Tzara e al Situazionismo di Guy Debord. Un broker gestisce le trattive in sala borsa citando il Futurismo di Marinetti, Balla, Boccioni e Apollinaire. L’operaio all’inceneritore parla di Architettura. Le parole di Kandinski sono i dialoghi in una festa di lusso. Una cantante punk urla la poetica di Naum Gabo. La scienziata nel suo laboratorio e il Suprematismo di Rodchenko e Malevich. Di nuovo il Dadaismo di Tzara, Aragon ed Éluard protagonista del discorso funebre di una vedova al funerale del marito. La marionettista e i suoi pupazzi che litigano su Breton e Fontana. La casalinga di campagna che, al pranzo domenicale con la famiglia, declama al posto della preghiera la Pop Art. Il collegamento tv tra telegiornale e giornalista inviata sull’arte concettuale. E la maestra in una classe delle elementari che corregge i compiti dei bambini a colpi di Dogma ’95 di Lars Von Trier e delle regole auree di Jim Jarmusch.
Le utopie del ‘900, in stridente contrasto con la realtà che le ospita, diventano ancora più necessarie, più forti, riprendono il loro ruolo autentico e originale: la rilettura radicale dell’arte e quindi della società contemporanea. E il tutto in una regia perfetta ed elegante, densa di riferimenti alla storia del cinema, una spirale sempre più ipnotica e avvolgente di grandi visioni in contrappunto sistematico con i testi letti, per un film che lentamente conquista fino a portarci alla esperienza più totalizzante e filosofica di tutte le grandi teorie dell’arte.

Cate Blachett affronta un tour de force inimmaginabile e si conferma una delle più grandi attrici di questi anni, per un film che sarà in poche sale ma che vi consiglio caldamente di cercare, vedere e godere. Perché l’arte è estetica, e Manifesto è estetica del cinema, tra le più affascinanti.

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