Terry Riley, “In C” e l’essenza del minimalismo

L’opera è eseguita al Ravenna Festival per ensemble con strumentisti delle scuole musicali di Forlì, Faenza e Ravenna, a cura di Tempo Reale

Terry Riley Concerto

Il compositore Terry Riley

Qualche tempo fa si è seriamente cominciato a parlare di minima­lismo nei termini di una filosofia dell’esistenza, di ispirazione orientale, legata all’idea di spogliarsi gradualmente di tutto ciò che è superfluo e/o ci tiene ancorati all’interno di una perenne celebrazione del passato. Come tutte le correnti di pensiero applicate al lifestyle anche quella minimalista è stata trattata dalle riviste di area generica con una generosa razione di prese in giro, il che ha contribuito – immagino – a relegarla più alla dimensione di un culto esoterico. Non che nella vita di tutti i giorni, sia chiaro, non capiti di sentir pronunciare la parola “minimale” o “minimalista”.
Spesso, verrebbe da dire, fuori contesto: lo si applica indistintamente a qualunque prodotto dell’uomo caratterizzato da un briciolo di sobrietà, senza andare a vedere come e quanto il prodotto in questione rispetti i canoni esecutivi esposti nel Manifesto Minimalista degli anni ’60.

Questo slittamento dei significati è stato possibile per due motivi: da una parte il significato delle parole tende ad evolversi nel corso del tempo, inglobando definizioni più generiche per poter utilizzare i termini con maggior frequenza (esempio se si usa l’aggettivo “minimale” al posto di “povero”, in certi contesti, si dà l’idea di sapere di cosa si sta parlando); dall’altra non esiste nessun Manifesto Minimalista.
La definizione “minimal art” viene usualmente fatta risalire al lavoro di Richard Wollheim, filosofo dell’arte che intorno alla metà degli anni sessanta utilizzò la parola “minimal” per riferirsi al lavoro di alcuni artisti dell’epoca. Più che a un’idea o un obiettivo, la parola “minimalista” definisce un approccio, legato in qualche misura all’idea di ridurre un numero infinito di possibilità, in qualche misura, in qualche maniera, nel momento di realizzare un’opera – limiti strutturali, avvicinamento al reale, sobrietà e quant’altro. La definizione piacque, abbastanza da soppiantare altri tentativi di definire lo stesso approccio e da superare tutti i confini intorno a cui era stata concepita. Di lì a poco si sarebbe utilizzato il termine con cognizione di causa parlando di prodotti artistici provenienti da altre epoche – il gancio con i readymade di Duchamp era già nelle premesse, ad esempio – e in forme espressive altre rispetto alle arti visive. Così, in molti campi espressivi, l’applicazione critica dell’idea di minimalismo ha portato a sviluppi fondamentali, imprescindibili per definire il presente di quelle forme. La letteratura, ad esempio, e anche la musica.

La definizione musicale di minimalismo è piuttosto minimalista. O meglio, si parla e sparla e riparla di minimalismo in ogni salsa, ma quando si inchioda la definizione ad un discorso storico è praticamente impossibile parlarne senza citare LaMonte Young, Philip Glass, Steve Reich, Terry Riley. Qualunque altra forma di musica per cui si è usata la definizione “minimalista” con un briciolo d’insistenza può essere fatta risalire ad almeno uno di questi quattro nomi. Una volta arrivati a questi nomi, viene un po’ difficile ridurre ulteriormente, e diventa un po’ più faticoso far risalire un artista a LaMonte Young e non a Terry Riley.

Ensemble Tempo Reale

L’ ensemble Tempo Reale che eseguirà al Ravenna Festival l’opera di Riley con gli allievi di alcune scuole musicali ravennati

Nota divertente: una delle principali distinzioni nell’estetica di questi quattro compositori è legata allo stile dell’abbigliamento di ognuno di loro. Ad esempio Philip Glass è quello vestito relativamente bene (il che, unito al fatto di essersi parzialmente smarcato dal ruolo di caposcuola del minimalismo, tende a farlo citare meno degli altri tre); LaMonte Young è quello vestito da biker, Steve Reich ha il cappellino da baseball e Terry Riley è quello vestito come un monaco orientale. Questo, naturalmente, stando alle foto che circolano dei musicisti in questione, poche e perlopiù ingenerose.

L’uso comune della parola “minimalismo” applicato alla musica tende a identificare come “minimalisti” prodotti scarni, contrassegnati da generose dosi di silenzio (reale o simulato), drastiche riduzioni degli sfoggi di perizia strumentale, impiego di un numero molto limitato di strumenti/musicisti – una scuola di pensiero che per certi versi parte da Glass o Cage, e arriva a dischi di sostanziale silenzio come possono essere quelli di gente come Taku Sugimoto. E non ci piove, sia chiaro, che questo sia minimalismo, ma c’è un altro approccio che si muove in parallelo e produce musica tutt’altro che silenziose o scarne.

Terry Riley In CPrendete ad esempio l’opera più famosa di Terry Riley, In C. Tecnicamente In C è una partitura composta da 53 frasi musicali che i musicisti possono suonare con margini di arbitrarietà (saltarne alcune, ripeterle a piacere); l’esecuzione è pensata di base per un gruppo di circa 35 musicisti ma realizzabile con gruppi più o meno numerosi; la durata è indefinita ma consigliata per un tempo totale dai 45 ai 90 minuti. Uno dei punti fondamentali del lavoro è legato alle modalità con cui è realizzato, e introduce un discorso importante legato al minimalismo di cui, in effetti, si parla spesso: oltre all’opera viene fornito uno spaccato di base della modalità con cui l’opera è pensata. L’altro discorso importante che riguarda il minimalismo di In C è ovviamente quello legato alla casualità: la libertà del musicista attorno alle poche regole scritte (la partitura è un paio di pagine) non solo è prevista, ma cruciale per lo sviluppo dell’opera. Le premesse, unite al sapore generale della musica, l’hanno resa un libro di testo fondamentale.
In C è tutt’altro che un’opera silenziosa e quieta, e in effetti l’umore della musica è molto simile a quello che risuona in musiche che tradizionalmente vengono considerate tutt’altro che minimaliste – il prog rock, ad esempio, o l’avant jazz. Per sua natura è un’opera fondamentale e unica: se ne può trovare traccia ovunque ma individuare epigoni diretti è piuttosto difficile. Ricostruire l’onda lunga della sua influenza, e dell’opera di Riley in generale, nel contemporaneo può essere allo stesso tempo eccitante e frustrante. Lo stesso Riley, da parte sua, ha sempre cercato di schermirsi nel merito – il suo modo di vivere la musica ha sempre avuto a che fare con la spiritualità, un’idea che in seguito (A Rainbow In Curved Air) ha affrontato a viso aperto, facendola diventare il centro di un sistema di pensiero musicale intorno a cui hanno gravitato tantissimi artisti – spesso con risultati pazzeschi.

Poi abbiamo visto slittare l’idea di minimalismo, e nel linguaggio di tutti i giorni usiamo la parola per definire un concetto di privazione. Dentro l’opera di Riley di privazione ce n’è poca: ci sono poche regole, questo sì, e c’è molta libertà attorno a quelle regole. Si cerca d’individuare il nucleo centrale di una musica e si esplorano le infinite possibilità di costruire qualcosa attorno a quel nucleo. Così, ogni volta che qualcuno ri-esegue In C, è tenuto a ricominciare dall’inizio, dalla partitura. E poi è tenuto a costruire il proprio mondo, e ogni volta In C è diversa.
Se vi va bene come definizione di minimalismo, per me non c’è problema.

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