Luci in scena: l’affascinante ruolo del light designer.«Consigli? Lasciare l’Italia»

Vincent Longuemare: «Ho iniziato questo mestiere per amore, perché la mia fidanzata voleva fare l’attrice»

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Un’immagine del Falstaff di cui Longuemare ha curato le luci

Progettare le luci per valorizzare al meglio quanto accade sul palcoscenico è il principale compito del light designer, una professione emergente di cui ancora non si conoscono tutti i segreti in Italia.

Ne è un esempio il francese Vincent Longuemare, trasferitosi nel Belpaese nel 1996, dove ha cominciato a collaborare con Sosta Palmizi, Déjà-Donné, Kismet Opera, Marco Baliani, Giorgio Barberio Corsetti e Teatro delle Albe. E proprio grazie al lavoro con la compagnia ravennate ha vinto il Premio Speciale Ubu per le luci nel 2007 con la seguente motivazione: «Per aver segnato ormai da anni gli spettacoli delle Albe con uno spirito scenografico che integra il lavoro registico».

In campo operistico, oltre che con Daniele Abbado e Mietta Corli, ha lavorato con Cristina Mazzavillani Muti, nell’ambito del Ravenna Festival, per cui ha curato le luci di spettacoli quali Tenebrae e L’amor che move il sole e l’altre stelle di Adriano Guarnieri, ma anche di diverse Trilogie, quali “Verdi & Shakespeare”con Macbeth, Otello e Falstaff nel 2013 e Cavalleria Rusticana, Pagliacci e Tosca nel 2017. Sempre per Ravenna festival, ha disegnato le luci per Sancta Susanna, con la regia di Chiara Muti, ma anche Nobilissima visione con la coreografia di Micha van Hoecke e per Dido and Aeneas di Purcell.

Vincent Longuemare, come ha scoperto di voler fare il light designer?
«Per amore, tanti anni fa. Avevo una fidanzata che voleva fare l’attrice e mi sembrava giusto metterla sotto una buona luce. In realtà, neanche sapevo che esistesse questo mestiere ma mi sono informato e ho trovato un corso interessante all’Institut National Supérieur des Arts a Bruxelles, città in cui poi proseguito la formazione tecnica all’Opéra de la Monnaie-De Munt».
Oggi cosa consiglierebbe a chi vuole intraprendere questa professione?
«Di lasciare l’Italia dove mancano corsi completi e di cercare un Paese con scuole che propongono un percorso di almeno due o tre anni. Sconsiglio di mettersi sul mercato e di iniziare dalla gavetta, senza una reale preparazione alle spalle, perché il rischio è di disimparare soprattutto se ci si trova a lavorare in produzioni a basso budget che nulla hanno a che vedere con quelle più grandi per cui poi servono competenze completamente diverse. Per sapere progettare e disegnare le luci, non conta solo la conoscenza tecnica che può essere frutto anche dell’esperienza ma occorre avere anche e soprattutto la giusta cultura e poetica che solo gli studi contribuiscono a formare».

Vincent Longuemare2 Foto Valentina Capone

Vincent Longuemare

Non funziona quindi “andare a bottega” da un bravo light designer?
«Può essere una strada percorribile, se si trova qualcuno disposto a farlo. Io stesso faccio piccoli corsi di formazione, ma non sono sufficienti per acquisire le basi di una professione in continua evoluzione grazie alle nuove tecnologie. Carenza di formazione, carenza di figure qualificate. Personalmente, sono sei mesi che cerco un assistente qualificato ma non lo trovo…».
Quanto è cambiata l’illuminotecnica in questi anni?
«Moltissimo. Faccio questo mestiere da 31 anni e per circa 20 ho lavorato con fonti alogene. Poi sono comparsi i fari motorizzati Moving Light e di recente le luci a led, denigrate per molto tempo perché a noi light designer piace il buio che esprime intimità. In realtà, sono meravigliose perché non consumano niente, ma hanno completamente rivoluzionato il modo di pensare le luci. C’è così tanta varietà che ci si può persino perdere nell’uso della tecnologia, considerando che poi c’è anche il vasto universo dei video, delle immagini, e via dicendo».
C’è differenza nel modo di concepire le luci nella danza, nell’opera o nella prosa?
«Fino a qualche anno fa, resisteva qualche stereotipo, ma ora la tecnologia ha azzerato tutto. Mi piace illuminare l’opera come se fosse un concerto rock o un evento all’aperto, per esempio. Nella danza c’è una maggiore presenza del corpo da valorizzare nello spazio scenico. In realtà, la differenza maggiore oggi la fanno i budget a disposizione. Un buon light designer riesce a fare belle luci anche con pochi mezzi, soprattutto nella prosa. Ma chiaramente avere un grosso budget, come quello che ho io ora per la Trilogia del Ravenna Festival con un centinaio di apparecchi autorizzati, offre la possibilità di sbizzarrirsi all’ennesima potenza».

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