C’è del caos sotto al cielo del green pass

Il prossimo 6 agosto potrebbe essere una data spartiacque.

In base a quanto in vigore al momento di andare in stampa – locuzione diventata quanto mai necessaria in tempi in cui abbiamo imparato che può capitare di andare a letto con una legge e svegliarci con una sua modifica – da quel giorno bisognerà essere muniti di green pass per accedere a un lungo elenco di luoghi pubblici (trovate i dettagli negli articoli del primo piano che comincia da pagina 6).
L’espressione inglese traducibile con certificato verde è un documento – cartaceo e digitale – che attesta l’immunizzazione o la non infezione da Covid.

Il provvedimento, che oltre all’Italia al momento è previsto in Francia ma non per i minorenni, ha sollevato perplessità, nei migliori dei casi, o proteste, nei peggiori. Anche in piazza a Ravenna ci sono stati episodi di assembramenti.

L’argomento è delicato, questo è indiscutibile. L’aspetto più controverso riguarda proprio i più giovani, quelli per i quali il coronavirus non si è rivelato un triste mietitore ma nella quasi totalità dei casi poco peggio di un raffreddore. Per avere il certificato dovrebbero vaccinarsi, ma il rapporto rischi-benefici (proprio in virtù dei blandi sintomi già citati) forse autorizza a ritenere non urgente la somministrazione del siero. Lo suggeriscono l’Agenzia europea del farmaco e l’Organizzazione mondiale della sanità, non due sovversive associazioni no vax che parlano di monetine che si attaccano alla spalla dove è stata iniettata la dose. In molti altri Stati europei la vaccinazione ai giovani non è spinta come in Italia.

A qualcuno è pure venuta in mente una lettura dei fatti che forse qualche fondamento ce l’ha: non diciamo eresie se mettiamo l’Italia nella lista dei Paesi con meno attenzioni sociali verso le giovani generazioni.
Un Paese per vecchi, si potrebbe sintetizzare. E forse un Paese per vecchi oggi non si è fatto troppi scrupoli di coscienza per tutelare gli adulti di domani.

Una strada alternativa al vaccino in teoria c’è. Si chiama tampone. Con uno negativo si ottiene in cambio un green pass valido per 48 ore. Pur tralasciando il fastidio del bastoncino nella narice, ci sono due problemi di natura più consistente.
Il costo: nella migliore delle ipotesi si possono trovare a 10 euro l’uno, che sembrano pochi ma se si immagina di andare in palestra due volte a settimana fanno 80 euro al mese.
Il secondo problema è più logistico: dove lo faccio ‘sto tampone? Perché a oggi si prenotano in farmacia o in strutture sanitarie private. Per andare al ristorante prenoto anche un appuntamento in farmacia? E il turista che si sposta come si organizza?

La complessità del tema è dimostrata anche da un dato empirico incontrato da chi scrive. Ci siamo trovati di fronte a gestori di palestre che non hanno voluto raccontarci come si comporteranno o hanno accettato di farlo solo restando anonimi. Non serve grande esercizio di fantasia per ipotizzare che in quelle strutture non verrà richiesto il green pass, ma quando c’è paura a dire la propria opinione perché finirà su un giornale, forse c’è qualcosa da aggiustare da qualche parte.

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