Leo Porcari, l’ombra di Gardini: «L’hanno ammazzato per non farlo parlare»

L’ex carabiniere è stato responsabile della sicurezza dell’imprenditore per cinque anni, non ha dubbi su cosa accadde 25 anni fa a Milano e assicura: «Raul non era massone e non sarebbe mai entrato in politica»

Porcarioggi

Leo Porcari oggi nel suo studio, dove lavora come investigatore privato

«Non ha premuto lui il grilletto». È passato un quarto di secolo, Leo Porcari oggi ha 80 anni e resta saldo sulla posizione presa subito dopo la morte di Raul Gardini per cui aveva lavorato nei cinque anni precedenti: «È stato un omicidio ma ha fatto comodo a tutti che passasse come suicidio». Per capire chi è Porcari, oggi investigatore privato, vale la definizione che si porta dietro da allora e che ripete lui stesso: «Sono stato la sua ombra. Vivevo con lui, quello che non mi diceva lo sapevo perché lo vedevo e quello che non vedevo lo sentivo».

Eravate amici?
«No, amici no. Eravamo una coppia che viaggiava in simbiosi nell’interesse comune. Gardini non poteva fare a meno di me e viceversa, come una droga. Io lo chiamavo dottore e gli davo del lei, lui mi dava del tu. Dopo sei mesi che lavoravo per lui avemmo una discussione e gli dissi che se da me voleva sentirsi dire solo sì come facevano i suoi amici ravennati allora aveva capito male perché ho una testa per pensare. Per tre giorni non mi parlò poi mandò la segretaria a chiedermi se ero ancora incazzato ma in realtà non lo ero mai stato».

Umanamente, che esperienza è stata stargli accanto?
«Le faccio un esempio: la sera a casa sua in via D’Azeglio preparavamo il programma del giorno dopo. Poi lo salutavo e in 5 minuti a piedi arrivavo a casa mia. Appena entravo suonava il telefono fisso ed era lui: “Porcari, è già a letto? Se non dorme torni qua che facciamo due chiacchiere”. È stata una bella esperienza per l’uomo non per l’importanza della mia carica: ero alle stelle ma non mi sono mai sentito un superuomo e lui apprezzava questa semplicità e umiltà».

Quante ore di lavoro in una giornata?
«A Gardini bastavano tre ore di sonno, il resto era lavoro. Alle 5 era in piedi e alle 6 era operativo».

Restava tempo per gli affetti personali?
«Era molto innamorato della moglie anche se non si faceva mai accompagnare a nessun evento. Non vedeva l’ora di tornare a Ravenna dalla famiglia. Spesso quando atterravamo a Forlì mi faceva chiamare la figlia Maria Speranza e andavano a mangiare un piatto di riso da Saporetti a Marina. Era molto legato alle figlie, meno al maschio che era più attaccato alla gonna della madre».

Perché la famiglia si è barricata in una riservatezza assoluta?
«Non lo so ma ne ho discusso anche con loro. Posso capire non volerne parlare per non rivangare un dolore, ma non l’hanno nemmeno difeso dagli attacchi. Una volta la figlia Eleonora mi disse che non poteva mettersi contro sua madre».

La passione per la barca e per il mare è cosa nota. Ne aveva altre?
«La caccia senza dubbio. Poi gli piacevano le auto veloci: ricordo una Mercedes Amg di seimila di cilindrata che una volta guidai io e mi ritrovai ai 300 senza accorgermene…».

Gardini 2

Leo Porcari con Raul Gardini. L’ex carabiniere originario del Lazio ha lavorato con l’imprenditore ravennate negli ultimi cinque anni di vita. Si conobbero nel 1988 quando Porcari già lavorava per Montedison

In auto sedeva abitualmente davanti quando guidava l’autista…
«Sì, sempre. E io dietro. Una volta fece una battuta dicendo che negli attentati alle auto di solito sparano ai finestrini dietro ma non credo fosse questo il motivo».

Era scaramantico?
«Durante la Coppa America portava dei calzini rossi ma nient’altro di particolare».

Chi l’avrebbe ucciso?
«Chi conosce i fatti sa che si era creato molti nemici. In particolare tre filoni: l’economia, la politica e una parte della famiglia».

Perché ammazzarlo?
«Quel giorno era noto che sarebbe stato arrestato dalla procura di Milano nell’indagine Mani Pulite e sarebbe stato interrogato dai pm. Il suo avvocato aveva già concordato che poi sarebbe andato ai domiciliari. Erano in tanti che avevano paura di cosa sarebbe andato a raccontare».

Bastava accontentarsi per restare vivo?
«Gardini faceva l’imprenditore, andava dove c’era da fare imprenditoria e guadagnare soldi. Non ha preso la Montedison per lo sfizio di andare contro Cuccia ma perché era lo strumento per una chimica a livello mondiale. Poi si è messo nell’operazione con Eni dove aveva le mani troppa gente».

Gardini avrebbe mai fondato un suo partito?
«Mai. Non amava i politici. Al varo del Moro per la Coppa America avrò ricevuto decine di telefonate di politici che volevano essere invitati ma lui diceva no a tutti».

Nessuno gli chiese di entrare in politica?
«Gli proposero il ministero dell’Industria nel Governo De Mita e rifiutò».

Nella morte di Gardini qualcuno legge dei segnali lasciati a uso e consumo degli affiliati alla massoneria. Gardini era un massone?
«No, né massoneria né Gladio. Lo posso dire perché ero amico del capo della polizia Parisi che conosceva le cose. La massoneria avrebbe voluto coinvolgerlo ma lui non aderì».

Chi sarebbe oggi Gardini se fosse vivo?
«Uno degli imprenditori più in vista del mondo, uno che aveva vinto la Coppa America».

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