Sacchi: «Il calcio è lo specchio del Paese, in Italia il cambiamento fa paura»

L’ex ct della Nazionale atteso per un incontro pubblico al Mar di Ravenna. «Mi è sempre piaciuto andare per musei. Voto Berlusconi, ma la prossima volta sceglierò solo chi metterà al primo posto scuola e ricerca»

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Arrigo Sacchi

Il Times lo ha nominato miglior allenatore italiano di tutti i tempi, con il Milan ha scritto la storia di questo sport in Italia e in Europa e con la Nazionale ha sfiorato il Mondiale. Arrigo Sacchi, da Fusignano, classe 1946, è stato per molti un profeta del “calcio totale”, così come si intitola il suo libro-biografia che presenterà venerdì 9 novembre alle 21 al Mar, il Museo d’Arte di Ravenna, nell’ambito degli eventi collaterali alla mostra “? War is over”, in un dialogo con il direttore Maurizio Tarantino.

Sacchi, qual è il suo rapporto con l’arte?
«Sono un appassionato: quando avevo tempo durante le trasferte con il Milan e la Nazionale andavo per musei, mi piacevano molto. In particolare la pittura fiamminga, di cui ho comprato anche qualche quadro».

La mostra a Ravenna è incentrata sul tema della guerra e al Mar in questo senso si parlerà anche di metafore calcistiche: ci sono partite che ricorda come vere e proprie battaglie?
«Beh, direi che in generale il calcio italiano ha molti proseliti e qui si adotta principalmente una tattica di guerra: in Italia si aspetta l’errore dell’avversario per sparare».

Quindi dalle nostre parti si gioca ancora solo con tattiche difensive?
«Negli ultimi tempi si può notare una certa evoluzione, ma questo è un Paese difficile e il calcio non è altro che lo specchio della vita sociale, culturale e politica di un Paese. Le sembra che l’Italia sia incline al cambiamento?».

Beh, al momento c’è in carica un Governo che si autodefinisce “del cambiamento”…
«Sappiamo cosa c’è spesso tra il dire e il fare, diciamo che in questo caso spero possa essere solo un fiumiciattolo…».

Per chi ha votato alle ultime elezioni? Ancora Berlusconi come ha sempre dichiarato in passato?
«Se non ricordo male sì: sono suo amico e gli devo molto. Però mi sono ripromesso che la prossima volta voterò solo quel partito che metterà al primo posto del suo programma l’istruzione e la ricerca scientifica, oggi troppo trascurati in Italia».

Tornando al calcio, e più in particolare al momento critico della nostra Nazionale, perché non nascono più grandi talenti? Colpa dei settori giovanili?
«Non è vero che non nascono più talenti, ne nascono anche troppi rispetto a quanto ci si crede e ci si investe. Ma in un calcio soprattutto difensivo il giovane inevitabilmente si perde. Il giovane è pieno di effervescenza, di idee, di entusiasmo e il calcio difensivo invece lo castiga».

Il tecnico della Juventus Allegri, con cui pare non andare troppo d’accordo, ha da poco dichiarato che nei settori giovanili c’è troppo tattica, che bisognerebbe lasciare più liberi i giovani di esprimersi.
«Il grande commediografo Bertolt Brecht diceva che senza un copione ci possono essere solo improvvisazione e pressappochismo…».

Quindi la tattica è importante…
«No, cerchiamo di usare le parole giuste. La tattica la fanno tutti quelli che aspettano l’errore dell’avversario. Altra cosa è la strategia, che permette invece di creare i presupposti per dar vita a uno stile, una qualità che purtroppo in pochi possono dire di possedere, nel calcio così come nel mondo del lavoro. Spesso sono chiamato a partecipare a convention per parlare di come si fa squadra in azienda e cerco di spiegare che due cose fanno la differenza: la cultura corporativa e lo stile. Lo stile ti identifica, dice chi sei, dà orgoglio e senso di appartenenza. E il problema vero è che spesso ci si dimentica di fare squadra, e che il calcio è uno sport di squadra».

Ci sono però allenatori che crede abbiano seguito le sue orme e che pensano quindi alla strategia e non alla tattica?
«Ce ne sono diversi. Senza bisogno di fare nomi, sono quelli che ritengono che il merito sia un valore, che la bellezza sia un valore, che lo spettacolo sia importante, che la vittoria senza merito non sia una vittoria. Se a me basta solo vincere, userò una tattica. Se invece credo che il calcio sia una filosofia, che debba essere spettacolo, inclusione, emozioni, significa che voglio vincere con merito. Ma in italia nessuno, in nessun campo, parla di merito».

In Italia chi vince, a calcio, è la Juventus. Quest’anno sembra avere un’impronta più offensiva, come chiedeva lei, anche in Europa, cosa ne pensa?
«Spero sia così. Avrebbe tutto per fare come le grandi squadre della storia, per essere un traino per tutto il movimento. A Manchester ho visto lo spirito giusto, altre volte no».

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