La sociologa: «stiamo vivendo una distopica perdita dell’innocenza»

Micol Pizzolati, professoressa associata all’università di Bergamo: «Vediamo più chiaramente come i nostri destini sono collegati. Resteranno segni sulla nostra percezione della vicinanza con gli altri»

Gente Coronavirus

Micol Pizzolati, 45 anni appena compiuti, alfonsinese d’origine e ravennate-bergamasca d’adozione, è professoressa associata di sociologia all’Università di Bergamo. Ci confida la sua visione del disagio individuale e di comunità che stiamo vivendo e quali ne saranno le conseguenze.

«Nel piacere schietto di trascorrere queste giornate nell’operosa quiete casalinga con mio marito, nostra figlia liceale e il cane di famiglia, si insinua costantemente e tenacemente un dolore attonito per la situazione gravissima di Bergamo e dei contesti in cui stanno vivendo e resistendo colleghi, amici e studenti che lì mi hanno accolta poco più di due anni fa. L’invito di R&D a condividere qualche riflessione su come sarà il mio lavoro dopo questo periodo dirompente è un modo per ripensarmi lì, al mio posto, tra un tempo ancora indefinibile.

Il lavoro di sociologo consiste – anche – nel comprendere come le persone danno senso all’esperienza di vivere ed essere in relazione, osservandole e ascoltandole. Ammetto di pensare, oggi, a questo lavoro con pudore, come se osservare e fare fossero collocabili ai due estremi della reazione possibile alla pandemia.

Mico Pizzolati Sociologa

Micol Pizzolati

Però penso altrettanto che sia, già oggi, nostro compito e responsabilità documentare l’impatto fisico ed emotivo delle alterazioni nella vita quotidiana durante la diffusione del contagio e la ridefinizione delle strutture sociali che determinano le disuguaglianze. Alcuni gruppi di ricerca italiani e numerosi colleghi stranieri stanno facendo sforzi e tentativi in queste direzioni.

Nella comunità sociologica internazionale si sta anche imbastendo un confronto sugli scenari che, come studiosi, avremo di fronte nel mondo post emergenza e su come potremo e dovremo indagarli e comprenderli. Tutta la ricerca sociale, connessa o meno con la pandemia, sarà interessata da profondi cambiamenti. Per chi studia, come ho fatto per alcuni anni, i processi che caratterizzano i sistemi di cura e le dimensioni attraverso cui prendono forma le rappresentazioni sociali ed individuali della malattia lo scenario sarà totalmente trasformato.

Ma altrettanto radicale sarà la trasformazione in tutti i contesti e processi sociali e relazionali che siamo soliti studiare, come il rapporto tra scienza, tecnologia e società, le politiche sociali ed educative, il mercato del lavoro e le sue trasformazioni, la religione e la laicità, i movimenti sociali, le relazioni di genere, i comportamenti devianti, la comunicazione e i media, i processi migratori, la famiglia e i rapporti intergenerazionali.

A livello individuale e comunitario stiamo vivendo una distopica perdita dell’innocenza che ci permette di vedere più chiaramente come sono collegati i nostri destini e che lascerà segni sulla nostra percezione della vicinanza con gli altri, sulle forme di solidarietà, sull’elaborazione del dolore, della sofferenza e del lutto.
Un aspetto su cui prevedo di concentrarmi con passione sarà quello della trasformazione necessaria dei metodi di ricerca da utilizzare per comprendere le esperienze vissute dalle persone anche in relazione allo spazio e ai luoghi e alle percezioni affettive e sensoriali».

 

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