Coraggiosa “Orazione epica” di Lady Godiva ma il ritmo dei versi si incarta sulla scena

Sideri Caravita

L’attore Enrico Caravita e il regista Eugenio Sideri di Lady Godiva Teatro

Certo doveva essere bello, ma possiamo solo immaginarlo. Finisce il banchetto, tutti fanno silenzio e l’aedo comincia a suonare la cetra, cantando in rima le storie degli antichi eroi. L’epica nasce da qui: dal canto, dall’unione fra musica e verso.

L’intuizione base di Orazione epica, produzione della compagnia ravennate Lady Godiva Teatro, è questa: partire da quel modello antico e tentare di attualizzarlo, sia per quanto riguarda la forma (voce e musica) sia per quanto riguarda la sua funzione (“conativa”, direbbe Jakobson), squisitamente pedagogica. L’aedo non canta solo per intrattenere. Il suo ruolo, nelle società a tradizione orale, è molto più complesso e comprende importanti aspetti educativi (memoria collettiva, nozioni geografiche, saperi pratici, trasmissione di modelli cosmologici).

Allo stesso modo, anche il testo di Eugenio Sideri – che nasce non a caso per spettatori studenti – si rivolge in apertura e in chiusura a un “figlio”, e gli consegna il senso profondo e moralistico dell’episodio che l’aedo (Enrico Caravita, unico attore sul palco) si appresta a raccontargli.

L’episodio è quello che percorre la vicenda dell’arciere Filottète, eroe sconfitto per eccellenza, abbandonato dai suoi compagni achei sull’isola di Lemno per assicurare la buona riuscita della guerra contro Troia. Partendo dalla tragedia sofoclea, filtrata dalla rivisitazione ad opera di Heiner Müller, il testo di Sideri si affida al verso per la narrazione della morte del protagonista.

Filottète diventa così il simbolo del martire della “ragion di stato”, personificata da un Ulisse rotto ad ogni nefandezza e pronto a qualsiasi menzogna pur di ottenere l’arco e le frecce di Filottète, senza le quali la guerra non può essere vinta. La spedizione, che finirà con la morte dell’arciere, comprende anche Neottolemo, figlio di Achille, che ha ereditato dal padre l’ingenuità guerresca e diverrà un ignaro strumento di morte nelle mani dell’esperto Ulisse.

Neottolemo, con la sua sprovvedutezza e con lo slancio tipico della sua giovane età, rappresenta un doppio per il giovane spettatore. Il parallelismo disegnato da Sideri è chiaro: così come la ragion di stato ha usato il giovane figlio di Achille per mantenersi le mani pulite, così è capace di usare l’ingenuità della gioventù per perseguire i suoi obiettivi.

Al di là di questa più o meno condivisibile connotazione ideologica, che attinge a piene mani dall’ultimo Pasolini e dalle sue Lettere luterane, è l’aspetto esecutivo dello spettacolo a mostrare i problemi più evidenti.

Probabilmente tutto parte dalla scelta del verso. L’esametro omerico è tradotto da Sideri quasi sempre con l’ausilio di ritmatissime coppie di senari in rima baciata. L’effetto, forte sul breve termine, è quello da cavalcata manzoniana, e può ricordare certi cori dell’Adelchi («dagli atrii muscosi, dai fori cadenti | dai boschi, dall’arse fucine stridenti»).

Purtroppo, se tirato per le lunghe, questo tipo di metro cade velocemente nella nenia, e pone grandi difficoltà all’attore, costretto a recitare più voci intrappolato nella stessa immutata struttura ritmica. L’unica scelta possibile è appunto quella di modulare il tono, a scapito però della chiarezza del testo e della credibilità dell’interpretazione.

Al testo di Sideri, che ha l’indubbio merito di aver tentato un’impresa ambiziosissima (la drammaturgia contemporanea, soprattutto in Italia, fatica a includere il metro poetico sulla scena, prediligendo versi liberi e anafore), avrebbe giovato una maggiore sperimentazione ritmica, alternando gli accenti dei senari ad altre forme metriche o osando maggiormente con le rime (sono tantissime le cosiddette “rime facili”, ad esempio quelle formate da desinenze verbali all’infinito).

Sono forse affidati a Manuel Zappaterra i momenti più riusciti dello spettacolo. Il primo, quando il batterista approfitta di una pausa testuale per saggiare con le sue bacchette gli elementi di scena. Zappaterra percuote gli oggetti come alla ricerca di una vibrazione diversa: vaga tra gli amplificatori, le assi del palco, tra i torsi sparsi sul proscenio (correlativo oggettivo degli infiniti morti della guerra di Troia?) come un Neottolemo sulle tracce dell’eredità paterna.

Il secondo chiude questa Orazione epica: il tempo tenuto dalla bacchette di Zappaterra, un battito secco e legnoso che ha scandito gli ultimi versi del dramma, all’improvviso svanisce. Il pubblico continua a vedere un movimento ritmico, che però non dà più alcun suono. La storia è già distante, è già scomparsa. Come per la musica antica degli aedi, la melodia è morta: ci restano solo mute immagini.

Orazione epica
progetto Eugenio Sideri e Enrico Caravita
drammaturgia e regia Eugenio Sideri
in scena Enrico Caravita
batteria Manuel Zappaterra
costumi Paul Mochrie
collaborazione allo sguardo Gabriele Tesauri
produzione Lady Godiva Teatro

Visto al Rasi il 21 febbraio 2019

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