Nominare il trauma, il cuntare di Davide Enia intorno a “L’abisso”

Davide Enia

Davide Enia (foto di Futura Tittaferrante)

Immersi in una luce blu, Davide Enia e Giulio Barocchieri fissano il pubblico. Il silenzio assorbe la piccola platea del teatro di Cervia per qualche minuto. Siamo già sott’acqua, in fondo all’abisso. Saranno le frequenze di quel blu, o la fissità ieratica dello sguardo dei due artisti sul palco, ma c’è nell’aria una tensione strana, un quartìo – termine siciliano introdotto qualche minuto più tardi nel monologo (e che spero di aver scritto bene).
È la sensazione istintiva, la certezza pre-razionale di qualcosa che sta per accadere.
Poi un cambio luci repentino. Una stilettata bianca colpisce Enia dell’alto, e l’attore comincia a cuntare, come preso da una frenesia. Il racconto avanza velocemente: è un impasto di siculo e italiano, ritmato da una partitura di gesti perfetta e dal battere antico del piede. La metrica, quella antica dei greci e dei latini, passa dal corpo.

È notte, siamo in mare aperto. Fra le onde e il vento di un Mediterraneo forza 9 un rescue swimmer, atleti specializzati nel recupero dei naufraghi in condizioni estreme, deve decidere chi salvare. A tre metri si sbracciano tre uomini, sul punto di crollare. A cinque metri una madre col bambino. «L’unica cosa che puoi fare è contare», spiega Enia. «In mare conta solo l’aritmetica».
Inizia così, con un richiamo dolorosamente reale del trolley problem della Foot, lo spettacolo di Enia, che dopo 11 anni torna a teatro con questo monologo tratto dal suo libro Appunti per un naufragio. Già nella scena iniziale sono condensati tutti i punti di forza di questo lavoro che, lo dico subito a scanso di equivoci, non va visto per “obbligo morale”. Non si tratta si dare un contentino ad una coscienza civile addormentata, un boccone estetico che ci faccia sentire piacevolmente in colpa per qualche ora. L’abisso, come tutte le opere ben riuscite, non è un confessionale.

L’abisso va visto per una ragione che è insieme più semplice e più profonda: perché è un bello spettacolo, capace di modulare un tema difficile e divisivo con una delicatezza che ha dell’incredibile. Enia non parla di cose nuove. Le storie che racconta sono quelle che ci raccontiamo da anni: gli sbarchi, la tragedia delle traversate, i recuperi dei gommoni, i lager libici, gli stupri.

Lo spettacolo funziona non perché ricostruisce un fatto con un’indagine accurata – come accadeva ad esempio col Vajont di Paolini – ma perché riesce a liberare dalla retorica e dalla polvere le parole a cui ci siamo assuefatti in questi anni. Per tutto lo spettacolo a commuovere è la bravura di Enia (accompagnato dalla stupenda partitura musicale dal vivo di Barocchieri) a trasmettere una necessità. Anch’essa parola usata e abusata, d’accordo, ma non saprei trovarne una migliore.
Il monologo si salda a questa necessità, la nomina. Le parole di Enia hanno una dignità diversa, suonano note diverse, pesano in modo diverso. Slantentizzano un trauma collettivo e lo rendono visibile, apartitico ma non neutrale, empatico ma non patetico, tragico ma non disperante. Forse 10 o 15 anni (perché è da tanto che il Mediterraneo si è fatto cimitero) sono il periodo minimo necessario che ha una società per riuscire a raccontarsi certi avvenimenti.

Si parlava di delicatezza, perché forse è questa la qualità del racconto che più colpisce. Non c’è ne L’abisso quella tendenza diffusa alla denuncia, all’esposizione pornografica del dolore tipica di tanto cattivo giornalismo. Non c’è nemmeno quello strazio teatrale insopportabile, da prefiche ipocrite, con tutti gli strepiti, gli appelli e le maledizioni annesse e connesse. Per tutta la durata del testo si avverte il pudore, la vergogna a fronte di una realtà orribile, la tentazione un po’ sicula di tornare al mutismo – quello stesso mutismo che affligge generazioni di padri siciliani, secondo Enia.
È l’equilibrio perfettamente calibrato fra queste due tendenze a risultare vincente: da una parte la necessità dolorosa di nominare, dall’altra quella egoistica del silenzio; «da una parte la voglia di aiutare gli altri, dall’altra l’istinto di sopravvivenza», secondo Enia, quando descrive la scotomizzazione del trauma di uno sbarco da parte di un’amica di Lampedusa.

La seconda intuizione del testo, che dimostra tutta la maestria narrativa di Enia, è la scelta di intrecciare a questo quadro orrorifico – Lampedusa, gli sbarchi, gli annegati – che fa ormai parte della Storia, anche un aspetto biografico: il racconto del rapporto col padre e della malattia dello zio. Enia non lo fa per protagonismo, ma per una ragione narrativa evidente. Il tema autobiografico aumenta l’immedesimazione dello spettatore col narratore, in modo da far vedere anche al primo, mediatamente e con occhi nuovi, gli sbarchi che il secondo ha visto nella realtà.
Al Walter Chiari di Cervia questa immedesimazione è perfettamente riuscita. Vuoi perché, per un abbassamento di voce, il racconto di Enia è stato ancora più intimo; vuoi per una felicissima intuizione dei tecnici, che hanno scelto di illuminare la sala puntando due sagomati sulla volta del teatro, dando così al pubblico l’impressione di una fonte luminosa superiore, come se stesse immerso sott’acqua.

Ci sarebbe ancora tanto da dire sulla qualità linguistica del racconto di Enia: L’abisso è prima di tutto un testo scritto bene, che non indulge in estetismi superflui, ma che riesce a raccontare le cose con semplicità, accuratezza e poesia.
Alcune immagini sembrano tratte da miti antichi: Vincenzo, il custode del cimitero che si riempie il naso di menta per recuperare i cadaveri ormai sfatti di naufraghi; l’oleandro piantato sulla tomba di una donna sconosciuta, per ridarle l’intimità che non ha avuto mentre moriva; il vento di Lampedusa, a cui si sopravvive solo diventando “di vetro”; il racconto del primo sbarco notturno a Cala Pisana, quando con un passamano i naufraghi riescono a portare la culla di un neonato dal barcone alla terraferma; il miracoloso salvataggio di un bambino nell’Egeo; le reti dei pescatori lampedusani che raccolgono pesci e morti, pesci e morti.
Nei racconti di queste persone che «si portano dentro un camposanto» risento, filtrate dalla sensibilità di Enia, l’Odissea, l’Eneide, Ovidio. E non è un caso che il monologo finisca con un richiamo al mito, quello di Europa: nominando il trauma torniamo all’origine archetipica della nostra civiltà.

 

L’abisso
di e con Davide Enia
musiche composte ed eseguite in scena da Giulio Barocchieri
spettacolo tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio editore)
una co-produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo Palermo, Accademia Perduta/Romagna Teatri

Visto al teatro Walter Chiari di Cervia il 13 dicembre 2018

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