La parte nascosta dell’iceberg. “Ifigenia, liberata” di Carmelo Rifici e Angela Demattè

Ifigenia LiberataÈ uno spettacolo complesso a chiudere la “Stagione dei Teatri”, quest’anno. Prendiamo spunto dall’etimo: uno spettacolo che “abbraccia” tante cose. Ma ci sono abbracci che confortano e abbracci che soffocano. Non sono sicurissimo che Ifigenia, liberata si sia limitato ai primi.

Carmelo Rifici e Angela Demattè ci consegnano un lavoro manierista, ultra-citazionista, cerebrale; uno spettacolo che non vuole limitarsi ad una messa in scena, ma che cerca una risposta con tormento, con impegno quasi filosofico: che cosa significa sacrificare? Qual è quell’oscuro nesso che collega violenza, sacralità e potere?
In due ore e trenta minuti, per provare a elaborare una risposta, Rifici e la Dematté squadernano una messe impressionante di grandi autori, dalla Bibbia a Girard, da Eraclito a Nietzsche, da Platone a Fornari, da Isaia a Euripide – ed è proprio il testo del tragediografo greco a costituire la base di partenza per questo spettacolo.

Sulla scena una compagnia teatrale è alle prese con le prove di questa Ifigenia, liberata. Gli attori si cambiano, provano le loro parti, dialogano con il pubblico, contestano le parole scritte dalla drammaturga e chiedono aiuto al regista – entrambe queste figure, nella finzione, sono presenti sulla scena per spiegare agli attori e al pubblico come integrare i vari apporti testuali fra loro.
In modo a volte anche spassoso (è divertente vedere come le interpretazioni del regista e della drammaturga facciano emergere i tic, le fissazioni, una certa pedanteria intellettuale) i quadri di recitazione vengono interrotti spesso da spiegoni critico-filosofici, che ci ricordano etimologie greche, miti che si collegano alla storia, tesi antropologiche, la teoria platonica dell’arte e della poesia, con un intento che vorremmo satirico, ma che rimane tragicamente pedagogico.
Il pubblico viene imboccato e guidato, lo si aiuta a tenere i fili del discorso teorico come se fossimo ad una conferenza. Ma, d’altra parte, questa attenzione didascalica è forse necessaria per un lavoro che ha l’ambizione di coagulare così tanti spunti (si parte dagli australopitechi e da Caino e Abele per arrivare ai barconi del Mediterraneo) in un unico quadro esplicativo: senza didascalie, sine glossa, buona parte del citazionismo della sceneggiatura si perderebbe.

Ma andiamo più a fondo: importa davvero al pubblico sapere che questo o quest’altro passaggio sono tratti o ispirati dalla Repubblica di Platone o da Umano, troppo umano di Nietzsche? A chi o a cosa serve questo impianto teoretico? Perché esplicitare un lavoro di ricerca tradizionalmente esoterico, incombenza squisitamente registica o drammaturgica, ad un pubblico che si meriterebbe di assistere a un quadro già compiuto?
È vero, entrare nel cantiere dello studio può essere affascinante, può stimolare chi ha già interessi in questo senso: capire come intendere questo o quel passaggio del testo di Euripide; sapere le implicazioni sociologiche dei suoi versi; stupirsi del filo rosso che collega Euripide a Shakespeare; comprendere la vera funzione della vittima sacrificale, intesa alla Girard come risolutrice di tensioni inconsce collettive alla base di ogni religiosità, figura allo stesso tempo liberatrice e inibitrice della violenza innata dell’uomo – sono tutte nozioni interessanti, ma in un certo senso “sommerse” rispetto all’opera. Necessarie ma non sufficienti.

È come se, invece di farci ammirare l’opera, ovvero la cima dell’iceberg, Rifici e la Demattè si ostinassero a valorizzare, ad ostentare la sua parte sommersa, le sue fondamenta teoriche. Ma per ammirare la punta, non è necessario vedere la parte nascosta: l’iceberg galleggia lo stesso, stupisce e ammalia anche senza esplicitarne le basi. È compito dello spettatore immergersi, trovare risposte e capire cosa sta sotto la superficie; all’artista dovrebbero bastare la sua lingua, una forma e un contenuto.
Così, come spesso accade per questi spettacoli filosofici – non riesco a trovare una definizione migliore – l’uso eccessivo degli apporti teorici finisce per soffocare la rappresentazione, trasformandosi ora in stampella per sorreggere una mancanza d’ispirazione (ma non è questo il caso), ora in bastone con cui colpire il pubblico dopo avergli fatto assaggiare fugacemente la carota. Lo spettatore, schiacciato da questa ostentazione di cultura, persuaso della propria ignoranza, finirà per approvare la messa in scena, giustificata da questa mole di materiali e autorità.

Ma a perderci davvero, in questi casi, è sempre l’opera: impaniata dalla teoria, non riesce a stendere le ali. Si colloca così in un limbo di incompiutezza fisiologica: da una parte non può, per ovvie ragioni, arrivare alla profondità dell’argomentazione e all’esattezza linguistica necessarie alla filosofia; dall’altra non riesce a fare libero uso degli strumenti teatrali: di quella benedetta sprezzatura che sta alla base di ogni opera ben riuscita; di quella meravigliosa leggerezza che cela e rivela, su un palco limitato, esperienze universali.

Si possono dunque rilevare alcune criticità nelle intenzioni registiche di questa Ifigenia, liberata; quello che non si può mettere in discussione è la qualità della sua esecuzione. Gli attori sono tutti ugualmente convincenti, le interpretazioni equilibrate. La musica dal vivo si inserisce in modo intelligente nella narrazione, senza mai risultare contrappuntistica.
La scenografia, forse tra le più belle della stagione, rappresenta una sala prove di gran classe con un’attenzione al dettaglio realistico quasi commuovente (mi ha stupito vedere riprodotta addirittura la targhetta luminosa verde dell’uscita di emergenza). Porte e divani capitonnés celano un retroscena nascosto, interiore, rosso sangue; ma al di la di quelle porte, dove avvengono tutti i sacrifici, possiamo penetrarvi solo grazie allo sguardo mediato di una telecamera, che amplifica, spettacolarizza la tragedia (esattamente come avviene nel sacrificio) e moltiplica i punti di vista. Una pulizia estetica mirabile, che deve molto alle simmetrie di Kubrick, autore d’altronde citato esplicitamente in vari punti dello spettacolo.

Ed è proprio il grande potenziale di questa meravigliosa macchina scenica a far risaltare la totale superfluità di tutte le pesantezze teoriche che lo infarciscono: non ne aveva alcun bisogno.

 

Ifigenia, liberata
ispirato ai testi di Eraclito, Omero, Eschilo, Sofocle, Euripide, Antico e Nuovo Testamento, Friedrich Nietzsche, René Girard, Giuseppe Fornari
progetto e drammaturgia Angela Demattè e Carmelo Rifici
regia Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico) Caterina Carpio, Giovanni Crippa, Zeno Gabaglio,Vincenzo Giordano, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Francesca Porrini, Edoardo Ribatto, Giorgia Senesi, Anahì Traversi
scenografia Margherita Palli
costumi Margherita Baldoni
scene realizzate dal Laboratorio di Scenografia “Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
costumi realizzati dalla Sartoria del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
maschere Roberto Mestron

Visto al teatro Alighieri il 28 aprile 2018

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