L’abilità mimetica di Marco Calvalcoli in sottile equilibrio fra Poli e Bowie

L’abilità mimetica di Marco Cavalcoli, attore di punta dei Fanny & Alexander, da qualche anno – ahinoi – residente a Roma, non è un segreto. La sua capacità di modulare voce e movimenti fino a farsi medium del personaggio sorprendono ad ogni spettacolo. Non è un caso, quindi, che Cavalcoli abbia deciso di “interpretare”, nel suo reading Santa Rita & The Spiders From Mars, in scena all’Almagià il  22 dicembre per Fèsta, due fra i più grandi trasformisti della storia della performance: David Bowie e Paolo Poli. Una strana coppia davvero, unita dalla comune passione per il travestimento e per la sperimentazione.

Marco Cavalcoli

Marco Cavalcoli (foto Massimiliano Fusco)

Santa Rita and The Spiders from Mars è uno spettacolo che ha già qualche anno. L’intuizione è arrivata da un critico, Rodolfo Di Giammarco: è così?
«Sì, è una commissione che ha debuttato nel settembre del 2017. Rodolfo voleva mettere a confronto le figure di Bowie e Poli per la sua rassegna, ormai pluridecennale, di teatro omosessuale, il “Garofano verde”, e ha pensato a me. Mi ci sono messo di buona lena e mi sono accorto presto di essermi ficcato in un ginepraio. L’intuizione mi sembrava affascinante, ma non avevo piena coscienza di cosa potesse significare realizzare un reading non solo su due autori diversi, ma su due autori che non sono letterari. Come fare? Per fortuna ho ricevuto aiuto e materiali da Silvia Lamia, laureanda con una tesi su Bowie e il teatro, e Andrea Farri, il nipote di Poli, che aveva già curato una mostra sullo zio e che mi ha messo a disposizione molto altro materiale. Così, attraverso interviste, brani teatrali, canzoni, ho cucito assieme questo improbabilissimo confronto fra due artisti che non si sono mai incontrati in vita loro, ma che io faccio dialogare al punto che, in un momento dello spettacolo, Poli intervista Bowie. Il filo conduttore è stato il loro trasformismo, la loro capacità di vivere pienamente il loro tempo e avere successo, portando però sempre semi di sovversione e innovazione».

Approfondendo queste due personalità, ti sei accorto dell’esistenza di altri tratti in comune, magari meno evidenti del trasformismo?
«Mi viene in mente l’etica del lavoro, che per entrambi è stata una vocazione, una missione, quasi una religione di vita. Entrambi hanno lavorato sempre al massimo delle loro possibilità, cercando di non tralasciare nessun dettaglio, andando fino in fondo alle loro visioni. C’è una cura artigianale del lavoro artistico, vissuto con grande completezza. David Bowie, all’inizio della sua carriera, si definisce uno scrittore; ma è stato musicista, cantante, attore, mimo (aveva studiato con Lindsay Kemp), si è occupato degli aspetti visivi della propria arte e del proprio lavoro. E soprattutto, è stata forse la prima rockstar a portare in scena personaggi: Ziggy Stardust, il Duca Bianco… È sempre stato un artista teatrale, in fondo. Allo stesso modo, Poli, uomo di teatro, ha fatto anche musica, televisione, ha curato le scenografie e i costumi dei suoi spettacoli. Sono insomma due artisti che hanno voluto lasciare un segno a tutto tondo nel campo della performance, e che si sono sempre proposti sotto le spoglie di qualche personaggio, con artifici credibili e godibili in entrambi i casi».

Oltre alla morte nel 2016, ho rintracciato altre caratteristiche in comune totalmente contingenti: erano entrambi figli di militari e tutti e due hanno lavorato su Pierino e il lupo di Prokof’ev.
«È vero, entrambi hanno fatto due versioni di Pierino e il lupo meravigliose. Quella di Bowie evidenzia tutta la sua capacità attoriale, davvero pazzesca. A parte questo, chissà: probabilmente il fatto di essere figli di militari ha dato a entrambi il desiderio profondo di smarcarsi dalle regole e, contemporaneamente, una grande disciplina sul lavoro. Quando pensiamo alle rockstar, prendiamo ad esempio il trio Lou Reed, Bowie e Iggy Pop, pensiamo a una vita fatta di sex, drugs e rock’n’roll, li immaginiamo tra una festa e l’altra a gozzovigliare, a far la bella vita. Ma questi erano lavoratori instancabili, lavoravano, lavoravano… Non erano persone che alle 6 di pomeriggio andavano a fare l’aperitivo».

Come Bowie, che ha continuato a lavorare fino all’ultimo giorno utile prima della morte.
«Esatto. Bowie ebbe l’esito negativo di un esame mentre registrava l’ultimo disco. Sapeva che sarebbe morto e non lo disse a nessuno. Continuò a lavorare per far sì che il disco uscisse come doveva uscire. Ecco, mi hai fatto venire in mente un altro aspetto interessante in comune fra i due: il loro rapporto con la morte. Bowie è stato ossessionato dalla morte per tutta la vita. Ha concepito la propria avventura artistica come una risposta al fatto che si deve morire: così se ne è andato con Black Star. In un senso diverso, più toscano, più italo-carnevalesco – e il carnevale è questo, una risposta alla paura della morte – l’arte di Poli ha una sua qualità irriverente, è un inno alla vita legato alle maschere e in profonda relazione con la morte».

In questa messe di materiali che ti sono arrivati, che tipo di montaggio hai operato? Comico, per analogie, per intuizione…
«Ho voluto creare un contesto di riferimento con l’intervento di alcuni giornalisti che intervistano Bowie e Poli. Ho seguito una serie di analogie e percorsi che li potessero far incontrare, spaziando liberamente fra i materiali, per darne conto e omaggiarli, senza una drammaturgia, senza una storia che faccia da contorno. Questo reading è una celebrazione della loro arte».

È il primo spettacolo che scrivi?
«In realtà si tratta veramente di un reading. Non lo penso come spettacolo teatrale ma come un divertissement, una lettura scenica, anche se la faccio in etero-direzione. Però sì, è la prima volta che curo personalmente una composizione».

In un reading a cosa serve l’etero-direzione? Non è superflua?
«L’etero-direzione è fondamentale per togliere Marco Cavalcoli dalla scena e restituire la voce ai due personaggi, evocarli come in una seduta spiritica. L’effetto vuole essere quello di ritrovarli in anima, se non in corpo. Era assolutamente necessario procedere in questo modo, per togliermi dalla scena».

La stessa scelta che, come Fanny & Alexander, avete operato anche per Primo Levi. È stato un programma o un caso?
«Non c’è stato un programma fra i due lavori, ma non è stato neanche un caso. C’è una poetica di lavoro condivisa sulla memoria. Memoria tramite l’impronta che le voci dei defunti lasciano nel mondo. Questa impronta sonora sembra catturare veramente un pezzo d’anima delle persone; al punto che la sorella di Poli, Lucia, che ha visto il debutto romano nel 2017, mi ha detto che le sembrava, in qualche momento, di rivedere suo fratello in scena. Ma non è perché io lo interpreto particolarmente bene: io mi lascio semplicemente guidare dall’impronta della sua voce. Ed è molto interessante quanto la voce di una persona dica della sua interezza. Una cosa che si può intuire grazie all’etero-direzione».

Poli e Bowie sono stati grandi trasformisti, ma si può dire senza tema che anche tu sia un trasformista, con i tuoi metodi e le tue qualità. Ti è sempre piaciuto imitare voci e accenti, o è un tic che ti è venuto dopo, grazie al teatro?
«Faccio fatica a risponderti. Credo che il mimetismo sia una mia qualità, sviluppata fin dall’infanzia. Una di quelle strategie di sopravvivenza ed esplorazione del mondo che i bambini sviluppano per rispondere alle condizioni ambientali. Poi sul mimetismo devo dirti che c’è un’evidente differenza tra me e Bowie, al di là della caratura. Bowie dice di sé di avere un talento mimetico: ma in un’intervista, in modo molto preciso, ride della definizione di “camaleonte del rock”, dicendo che il camaleonte è un animale che si conforma al background, all’ambiente. Lui, al contrario, afferma di creare un nuovo ambiente – una cosa che si può dire anche di Poli. Come interprete io mi metto al servizio della poetica, della visione, delle figure che sto interpretando. Mi sento più interprete che autore. Trovo una mia dimensione nell’essere medium, non in senso trascendente, ma in senso molto fisico. Questa è una sensazione che provo molto negli ultimi anni, adesso che mi sto dedicando, con sempre maggior impegno, all’insegnamento del teatro, sia alla Stap Brancaccio che alla Silvio D’Amico. Con gli allievi mi sento più un tramite che non un maestro».

Per lavoro avrai a che fare soprattutto con ventenni. Come vedi questi ragazzi?
«Partiamo dal presupposto che il mio punto d’osservazione è particolare: si tratta di ragazze e ragazzi che scelgono una professione artistica e che hanno un tipo di visione anche etica del mondo – direi quindi che non sono rappresentativi dell’intera loro generazione. In generale mi trovo di fronte persone molto serie, che prendono con molto impegno il proprio lavoro e hanno una grande consapevolezza del mondo in cui vivono. Mi ricordano non tanto la mia generazione, né quella dei miei genitori; ma quella dei miei nonni. Persone che sono vissute a cavallo delle guerre. Questa è una generazione che è pronta a rimboccarsi le maniche perché è consapevole di avere davanti un mondo molto complesso».

Spesso, parlando di giovani, si cita la rassegnazione, la disillusione…
«Non sono discorsi distanti. Queste persone stanno decidendo di giocare la propria vita, in campo artistico, nell’Italia degli anni Venti. Sono preparate a una battaglia culturale. La rassegnazione la vedo, sì, ma nel loro realismo, nell’accettazione del mondo per quello che è. Non pensano di poterne cambiare le strutture di base, ma sono allo stesso tempo convinti che l’impegno possa portare loro risultati. Non sono una generazione utopistica, ecco; ma credono nell’impegno concreto».

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