Al cuore della menzogna. “Illusioni” di Ivan Vyrypaev in scena con i Big Action Money

BAM Illusioni

foto Davide Silvi

Anche se spesso non ce ne rendiamo conto, non c’è soltanto un modo per mentire. Intendiamo la menzogna per lo più come un atto consapevole, finalizzato ad ingannare il nostro interlocutore. Ma dire il falso a nostro vantaggio è solo un aspetto, il più evidente, del vasto universo della menzogna.

Mentiamo quando celiamo agli altri i nostri veri pensieri – l’ipocrisia è la forma più sociale della menzogna. Mentiamo quando non diciamo tutto quello che dovremmo dire: in questo caso basta un’omissione, un vuoto apparentemente corretto, per manipolare l’ascoltatore. E si mente anche in modo inconsapevole, quando, sconosciuti a noi stessi, incerti delle nostre vere intenzioni, compiamo scelte sbagliate.

Mutatis mutandis, la menzogna sta alla base di un certo modo di intendere il lavoro dell’attore. Chi è l’attore se non il più bravo, il più perfetto “bugiardo”, che siamo disposti anche a pagare per le sue illusioni? Diderot potrebbe essere d’accordo.

Da questo punto di vista, Illusioni di Ivan Vyrypaev è uno spettacolo intrinsecamente meta-teatrale, per la sua capacità di analizzare la menzogna, consapevole e non, con la freddezza e la tragica ironia tipica di certi autori russi. Un’analisi priva di giudizi morali, che rimane alla superficie dei rapporti senza imporre assiologie agli spettatori, senza condannare la condotta dei personaggi che racconta.

A rendere particolarmente interessante questo testo contemporaneo – ha debuttato infatti nel 2012 – è l’abilità con la quale l’autore riesce a replicare sulla scena certi meccanismi linguistici tipici di ogni rapporto umano. La storia fra le due anziane coppie protagoniste delle vicende narrate non potrebbe essere più neutra, priva com’è di qualsiasi coordinata socio-politica. Vyrypaev dispone sul suo vetrino, quasi fosse uno scienziato, tipi umani astrattamente occidentali e gioca ad osservare da fuori il loro comportamento.

Con sensibilità da etologo, Vyrypaev registra ogni menzogna detta, anche quelle sprovviste di un vero e proprio scopo; accoglie nella drammaturgia stereotipi e frasi fatte per farne emergere tutta la ridicolaggine; gioca, grazie agli attori, ad ingannare il pubblico, che diviene un altro personaggio circuito alla pari di tutti gli altri. La scena è una lente d’ingrandimento formidabile per osservare il cuore della menzogna: la totale opacità del nostro io.

È questo il sale critico dell’opera di Vyrypaev: farci capire che siamo gli analfabeti di noi stessi. Non sappiamo chi siamo, non conosciamo i nostri sentimenti, non riusciamo a leggere i moventi profondi delle nostre azioni. È questa opacità che ci porta, inevitabilmente, a mentire anche senza volerlo, anche quando crediamo di comportarci in modo irreprensibile.

Danny, Sandra, Albert e Margaret non sono mostri di malizia e cattive intenzioni – è qui che sta tutto l’interesse di Illusioni – sono due banalissime coppie di esseri umani che, per il semplice fatto di vivere, sono condannate alla menzogna. Le “illusioni” del titolo nascono dal groviglio irrazionale delle loro emozioni; dalle banalità sentite ripetere e dette mille volte sull’amore, sul suo significato, sulla sua vera natura (“corrisposto”, “non corrisposto”), sull’importanza di “trovare un posto nel mondo”; dalla paura di parlarsi apertamente e dai malintesi che nascono quando finalmente ci decidiamo a farlo.

L’episodio dell’ufo capitato a Danny è, in questo senso, centrale per comprendere la vicenda. Dalla consapevolezza che nessuno gli avrebbe mai creduto qualora avesse deciso di raccontare di aver visto una navicella spaziale, a otto anni Danny capisce che il mondo degli uomini è intessuto, è intrinsecamente composto di menzogne – così decide di non dirne più, quasi una rivolta contro la società. Racconterà dell’ufo alla sua amata compagna, Sandra, che non solo non sembra credergli, ma che addirittura non comprende il significato profondo che questo episodio rappresenta per suo marito: “Che cazzo c’entrano adesso gli alieni?!”, pensa in silenzio.

Questi personaggi sono vittime di un linguaggio impreciso, sfuggente, piatto, che li attraversa e li influenza attraverso la formazione di idee confuse, di opinioni comuni rimasticate e cliché emotivi. Non è un caso che l’unica frase poeticamente memorabile sia da riferire a un momento di ottenebramento mentale di Albert, quando, vittima dei fumi di uno spinello, il personaggio scopre che “il mondo è morbido”. Il linguaggio finalmente si libera dalle scorie della socialità e si fa personale, o almeno più vero.

Il senso di distanza e lo straniamento quasi scientifico della lingua di Vyrypaev sono moltiplicati anche dalla scelta di non riprodurre mai la lingua parlata attraverso dialoghi diretti. Ogni vicenda è raccontata come un monologo da un narratore esterno che riporta le azioni e i pensieri dei personaggi.

Non c’è mai un’adesione completa ad una psicologia – in questo sta la componente performativa di questo spettacolo. Quei pochi momenti in cui, grazie alla bravura degli attori, cominciamo a provare un’empatia con uno dei protagonisti di questo disgraziato quartetto, subito il testo di Vyrypaev ci scuote, ci sveglia con una doccia fredda di ironia e sarcasmo. Come ad esempio quando, dopo il monologo iniziale che ripete le ultime parole di Danny agonizzante sul letto di morte, il narratore decide di chiudere la sequela di dolcezze e buoni sentimenti con un tombale “E poi muore” – così, al presente, ancora più feroce.

Oppure alla fine, quando viene raccontato il suicidio di Margaret: la lettura della sua lettera d’addio al mondo e ad Albert non ci smuove. Non proviamo dolore o pietà, ma semmai guardiamo la scena dall’alto, vagamente divertiti dal gesto, così tragico e fuori luogo per un’anziana ottuagenaria, ironicamente esagerato e confuso come la frase ripetuta sempre uguale sulla lettera.

Il sapiente uso della terza persona ha inoltre un doppio vantaggio: non solo aumenta la distanza dall’azione e dal racconto, ma facilita il gioco della menzogna. Non possiamo essere certi che questi narratori, simpatici e scanzonati ragazzi in mezzo al pubblico, ci dicano tutta la verità. Loro lo sanno e ci giocano: “Margaret aveva avuto un tumore… No scherzo, non è vero, non è vero”, sogghigna a un certo punto un narratore. Così il pubblico segue la trama sempre allerta, resiste alla seduzione della recita, convinto ad ogni minuto di cadere vittima di un’altra illusione.

Da questo punto di vista pare particolarmente indovinata la forma scenica scelta dal regista (e traduttore) Bonci del Bene. La totale mancanza di una scena, che rimane vuota per tutto il tempo, permette il primo inganno al pubblico, che sulle prime resta qualche minuto in attesa dell’inizio dello spettacolo. E che cosa rappresenta la rumorosa apertura di un pacchetto di patatine in platea, durante un monologo sentito e commosso, se non il gesto più efficace e odioso per infrangere l’equilibrio dell’illusione teatrale?

E sebbene non emerga dal testo una visione particolarmente rinfrancante dell’esistenza, intriso com’è di freddezza e ironia su tutti i non-sensi che, senza accorgercene, continuiamo a dirci e a commettere, è altrettanto vero che rompere un’illusione è un esercizio particolarmente salutare per chi non è più abituato a fare i conti con la realtà. Anche a questo serve il teatro.

 

Illusioni

di Ivan Vyrypaev

traduzione e regia Teodoro Bonci del Bene
con
Carolina Cangini, Kristina Likhacheva, Jacopo Trebbi, Teodoro Bonci del Bene
luci e scene
Matteo Rubagotti

Visto al Teatro Rasi il 20 aprile 2018

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