Occhiali nuovi per vedere la classe operaia. Elio Petri rivisto da Longhi e Guanciale

Classe Operaia Paradiso

Una scena de “La classe operaia va in paradiso” (foto Giuseppe Di Stefano)

Una cosa è certa: la classe operaia non è andata in paradiso. I vaticini di Marx e soci non si sono realizzati nel mondo secolare e, quando ci hanno provato, hanno creato inferni di povertà e omologazione. La società senza classi vive ancora nel regno delle idee.
La classe operaia non è andata in paradiso anche perché non è morta affatto. Nonostante qualche narrazione sinistrorsa e auto-indulgente, non è vero che la sinistra si è sciolta per l’estinzione degli operai. Non è vero che la scomparsa di una classe ha determinato la disgregazione di un partito politico.

Piuttosto, è vero il contrario: è stata la dismissione di un’ideologia forte, come quella comunista, che ci ha impedito, da vent’anni a questa parte, di vedere con chiarezza che quegli stessi rapporti di forza fra classi, lungi dall’essere superati come orrori di un secolo barbaro, continuano a ripetersi tutt’oggi sotto altre forme (la sinistra è s-pensierata: e gli operai votano Lega).
Precariato, concentrazione del capitale, disoccupazione, aumento dell’età pensionabile, liquefazione digitale dei diritti del lavoro, automatizzazione crescente: il mercato del lavoro del Duemila non fa che spostare la polarizzazione del conflitto dal piano politico a quello generazionale, alla faccia di Fukuyama e alla sua “fine della storia”.
Dunque: che fare? Rispolverare gli occhiali marxisti per interpretare una realtà distante 200 anni dal filosofo di Treviri? O forse, più profondamente, prendere coscienza che il conflitto di classe ha cambiato forme e trovare il nostro personale modo di “sfondare il muro”?

Credo che il messaggio lanciato da Claudio Longhi e Lino Guanciale in questa rilettura teatrale de La classe operaia va in paradiso vada letto in questo secondo senso: partire dall’ideologia violenta dei nostri anni ’70 – la stessa messa alla berlina nel film di Petri – per parlare di tutti i Lulù Massa nostri contemporanei. Tanti Lulù, tantissimi; anonime e interscambiabili (nomen omen) pedine di un mercato del lavoro sempre più sregolato.

Ci sono almeno tre piani di lettura di questo spettacolo, squisitamente brechtiano nel suo intento didattico intrecciato all’epos della lotta di classe.
Il primo, più banalmente, è l’adattamento teatrale dell’intreccio narrativo del film: alcuni quadri ripetono le scene più importanti della pellicola, ne ripropongono i dialoghi originali, ricostruiscono addirittura i movimenti precisi (l’incidente del dito, il sesso in macchina con l’Adalgisa-Donatella Allegro, la “conta” degli oggetti, etc.)
Il secondo piano è la riflessione sul film stesso. La sua genesi viene raccontata al pubblico dagli stessi dimessi e petulanti autori, il regista Elio Petri-Nicola Bortolotti e lo sceneggiatore Ugo Pirro-Michele Dell’Utri, irresistibilmente anni ’70 con i loro taccuini e il loro lessico, che intervengono per interrompere l’azione e per esplicitare la loro poetica. Ma si racconta anche la storia della ricezione di questo film, sin da subito criticatissimo da tutte le categorie.

Brevi quadri “esterni” accompagnano lo sviluppo della narrazione: delle coppie, appena uscite dal cinema, commentano il film di Petri. Questa scelta drammaturgica permette di storicizzare la pellicola senza annoiare, raccontando allo stesso tempo come è cambiato il suo pubblico.
C’è la coppia anni ’60 che interpreta i versi di Elio Pagliarani – la poeticità in risposta al realismo allucinato di Petri; c’è la coppia anni ’70, già in pieno “riflusso privato”, che pensa a scopare in sala senza porsi troppi problemi ideologici; c’è la coppia gay contemporanea, per la quale il film è ormai un documento storico, sul quale costruire aneddoti vintage, privo di un messaggio politico attuale. Infine c’è il cineforum in platea – o meglio, la riproposizione del morettiano dibattito – nel quale Paolo Di Paolo si diverte in un pastiche che raccoglie i vari articoli di critica al film di Petri, da Fofi in avanti. Un guazzabuglio di critiche assurde, spesso iper-ideologiche, che dimostrano come Petri e Pirro avessero in realtà colpito nel segno.

Classe Operaia Paradiso GuancialeQuesti primi due piani interpretativi sono essenziali al terzo. Raccontare il film e storicizzarlo, metterlo in contesto, significa anche capire cosa di esso ci parla ancora, dopo l’esaurimento di quella stagione calda di scioperi, di proclami rivoluzionari, di ubriacature marxiste. Capire insomma che la scomparsa di un’ideologia non deve lasciarci boccheggianti davanti a una realtà complessa, ma deve spronare alla ricerca di un’altra lente critica attraverso la quale leggere gli attuali rapporti di forza.
Più che in vere e proprie scene, quest’ultimo piano ermeneutico è presente nella visione registica e negli interventi del cantastorie (un bravo Simone Tangolo), voce cantante e narrante brechtiana, esterna al racconto. Una voce critica, che giudica, che avverte il suo pubblico, che ostacola una totale immedesimazione nelle vicende del protagonista.

È ovvio che uno spettacolo del genere non poteva esaurirsi in una riproposizione pedissequa del film di partenza. E per fortuna non l’ha fatto, operando una riflessione che inquadrasse l’opera originale nel suo contesto storico, mantenendo allo stesso tempo un occhio fermo sull’oggi. Da qui l’impegno quasi archeologico di scavo negli anni ’70 (la sigla di Rischiatutto, le canzoni operaie, i costumi, il lessico, il Carosello, etc.).
La produzione di ERT mostra tutti i suoi muscoli. Una scenografia imponente (nastro trasportatore, strutture metalliche alte metri, videoproiezioni, velatino d’ordinanza, musica dal vivo) sorregge una regìa complessa, piena di movimenti, di interruzioni, di sdoppiamenti semantici e narrativi. Gli interpreti sono sembrati tutti perfettamente a loro agio – ma una menzione speciale la merita Diana Manea, intensa, a cui spettava il difficile compito di portare sulle spalle un’indimenticabile Melato.

Tuttavia non si possono tacere alcuni rilievi critici. In primis, la durata. Due ore e trenta contro un film originale che non arriva alle due ore. Tagliare, sfrondare: ci sono troppe ripetizioni registiche, troppi quadri troppo simili, troppe superfetazioni (per usare il lessico petriano), come proiezioni inutili (Chaplin aleggiava nell’aria ancora prima di sedersi in platea), movimenti di troppo, personaggi che sfuggono di mano. La drammaturgia, che riesce nell’intento della traduzione teatrale, ha avuto paura della sintesi, preferendo raddoppiarsi laddove bastava una rimodulazione.

Discorso più complesso va fatto per l’interpretazione di Lino Guanciale. Bravissimo nei suoi calembour dialettali a inizio spettacolo (forse la scena più bella di questa produzione), Guanciale rimane calibrato e sempre intenso fino alla fine. Tuttavia è palese che, vuoi per sue caratteristiche intrinseche, vuoi per marcare una distanza da Volonté, l’attore abruzzese abbia deciso di evidenziare il lato comico del suo personaggio. Guanciale strappa spesso una risata alla platea, fa largo uso di una mimica corporea laddove Volonté aveva optato per una violenza stolida, quasi bovina. C’è da chiedersi se questa evoluzione comica di Lulù non finisca per depotenziare la carica d’inquietudine e la psicosi del personaggio filmico.

Infine: morta l’ideologia, quale lente ci rimanere per leggere il mondo? Lo spettacolo non lo dice. Allo stesso modo, Petri non risolveva il sogno finale di Lulù: dietro il muro della realtà rimane nebbia fitta, altroché paradiso. Forse Longhi ci indica una direzione? Un’intuizione nascosta nella citazione iniziale di Valéry? Capire che il nostro “mondo sociale” è soltanto una finzione, basata su narrazioni, credenze, abitudini, non significa già, in un qualche modo, sancire una possibilità di cambiamento?

 

La classe operaia va in paradiso

da un’idea di Lino Guanciale

liberamente tratto dal film di Elio Petri

sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro

di Paolo Di Paolo

regia Claudio Longhi

scene Guia Buzzi

costumi Gianluca Sbicca

luci Vincenzo Bonaffini

video Riccardo Frati

musiche e arrangiamenti Filippo Zattini

regista assistente Giacomo Pedini

assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios

con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

produzione ERT

Visto all’Alighieri il 10 marzo 2018

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