Le fantasmatiche vite degli altri nel teatro domestico di Crocco e Miele

Progetto Demoni

Foto Luca Del Pia

Quando d’estate passo per Borgo San Biagio, fra quelle case basse e umide, intrappolate nella penombra soffocante, c’è un gesto che non posso frenare: quel gesto infantile, di una curiosità voyeuristica e innocua, che mi fa lanciare un’occhiata veloce oltre le finestre aperte sulla strada, cercando di cogliere una scheggia di vite sconosciute. Una schiena abbandonata sul divano mentre guarda la televisione; un gomito che mescola in una pentola; un bimbo che gioca con un cane.

Niente di speciale, ovvio; si tratta per lo più di gesti banali. Ma chissà per quale motivo ci attraggono così tanto le vite degli altri, perché ci eccita quella loro intimità per un attimo violata… Ecco, da questo sentimento mi sembra originare lo spettacolo di Alessandra Crocco e Alessandro Miele, Come va a pezzi il tempo – un lavoro minimo, tutto in sottrazione, pensato per un pubblico di 4-5 persone e agito in una casa privata.

Entriamo in uno spazio sconosciuto ma vero (lo spazio è il protagonista di questo spettacolo) e assistiamo come fantasmi invisibili al progressivo logorio di una giovane coppia. Lui, con velleità da scrittore – e come tutti gli scrittori inabile alla vita ed egocentrico; lei, una donna trasparente, senza grandi ambizioni se non quella, immensa, della felicità, che lentamente si emancipa da una condizione di “morbida” sottomissione al compagno.

In alcuni momenti il fantasma di lei (o siamo noi i fantasmi?) si rivolge al pubblico, gli offre una cornice minima di quei ricordi che vediamo accadere a pochi metri senza poter prenderne parte. Sono schegge di passato mentale che, pensiamo, accadono ancora e ancora, un po’ come nella novella di Nastagio nel Decameron. Ciò che vediamo è l’ossessione di un ricordo, la sua permanenza oltre la nostra volontà: una “presenza” che ci inquieta e ci affascina.

Si rincorrono in casa, felici e un po’ scemi, come tutti gli innamorati. Stacco. In cucina, mentre lei prepara la cena, giunge una telefonata importante per l’aspirante scrittore: la casa editrice gli ha rifiutato il romanzo. Si innesca la prevedibile lite, e lei, per la prima volta, candidamente, gli fa fare i conti con la sua mancanza di talento. Stacco. Nella camera da letto, i due non riescono a parlare. Stacco. Una telefonata a lui, dove si prende atto della fine irreparabile del rapporto. La sinossi dello spettacolo sta tutta qui.

Banale, certo. Ma quale relazione, in fondo, non lo è? Perché ciò che è importante non è vedere scene madri, grandi liti o colpi di scena inaspettati: ciò che è importante è quel sentimento complesso, che tiene assieme civile disagio (“perché sono qui? È meglio che vada, non voglio spiare”) e viscerale curiosità, morbosa ma splendidamente umana, quella che fa muovere il pubblico in punta di piedi per le stanze sconosciute seguendo la storia di questi due amanti fuori dal tempo.

Certamente, non è un lavoro perfetto. C’è più di una sbavatura nella scrittura di scena, e si dovrebbero forse riempire i vuoti logici per arrivare a un minutaggio più coraggioso ma essenziale per entrare in vera empatia con i due protagonisti (30 minuti sono troppo pochi); e ancora, c’è forse qualche lavoro in più da fare sul tono generale della recitazione, che mi pare avere solo due possibilità: o ancora più etereo e sospeso, o ancora più naturale e prosastico.

Ma il centro di questo lavoro, ovvero la riflessione sul rapporto fra pubblico e spazio intimo, mi pare sia messa bene a fuoco.

Come va a pezzi il tempo
di e con Alessandra Crocco e Alessandro Miele
Progetto Demoni

Visto il 23 gennaio 2020 in una casa privata

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