“Macbetto”, una tragedia brutta, sporca e cattiva. Come l’umana realtà

Macbetto Enrico Fedrigoli

“Macbetto”, foto di Enrico Fedrigoli

Uno dei requisiti della tragedia è la dignità dei suoi protagonisti. Il Macbeth shakespeariano non fa eccezione: il pavido Macbeth e la sua sposa, benché infettati dalla febbre del potere, rimangono figure dignitose. La follia che a un certo punto cattura la Lady è meno una punizione divina che un sintomo della sua umanità (per questo ancora ci commuove la sua disperazione: «all the perfumes of Arabia will not sweeten this little hand…»).

Nelle mani di Testori il Macbeth va a pezzi. La coerenza psicologica si sfascia; i personaggi perdono profondità per acquisire una bidimensionalità da marionette idiote; il meccanismo della trama avanza vorticoso, con l’incedere allucinato degli incubi. Ma soprattutto esplode il linguaggio della tragedia. Testori contamina, abbassa, sfregia la lingua italiana. O meglio, la trasmuta: c’è veramente qualcosa di alchemico in questa lingua «porcellenta e falsatoria», che riesce ad ospitare le immagini più turpi senza offendere o diventare volgare, ma anzi lasciando intatta la sua forza poetica.

Ecco così sfatato il primo equivoco che aleggiava attorno alla messa in scena curata da Roberto Magnani: in Macbetto non c’è nulla di offensivo o volgare, nulla da cui salvaguardare gli spettatori più giovani, nulla che possa offendere la pubblica moralità. Se venite stravolti dalla parola «sborata» o «ciavada», il problema è tutto vostro, non è dello spettacolo.

Ciò che invece deve colpire il pubblico è la forza di questa “trasmutazione”, che ci parla con immutata urgenza dal ’74. In Macbetto è negata ogni altezza. O meglio, è proprio nella vertigine del basso, nella nausea dell’immanenza, che Testori riesce a trovarla. Dal fondo del pozzo urla un’umanità brancolante, sempre sul punto di spegnersi e diventare altro. Magnani ha deciso di immergersi in questa fossa di umori e di sporcarne la scena. Nulla viene risparmiato al pubblico: sangue, merda, piscio, ani lacerati, colonscopie. Nulla viene risparmiato perché nulla ci risparmia la realtà – nascondere sarebbe immorale.

Solo così, accettando le provocazioni estreme di Testori, si riesce a penetrare il nucleo più profondo del testo, quella profonda riflessione filosofica che lega potere e sessualità, o meglio potere e corpo. Una riflessione che, se a tutta prima ci può sembrare politica o satirica, alla fine si rivela addirittura teologica – azzeccatissima in questo senso la parabola registica scelta da Magnani, che si apre in tono grottesco, raffigurando il nostro Macbet con fez e fiocco nero, avvinto alla sua Ledi mentre cinguettano all’unisono «vinzeremo!», per chiudersi elegiaca, con una versione lombarda del Padre nostro e la preghiera allo “Scrivano” per un’alba di speranza.

Teologica, si diceva, perché il vero strumento del potere non è il fallo – il «poteràz» – come potrebbe sembrarci all’apertura del dramma. Il «poteràz» è violento, può solo mettere fine alla nostra vita. La vera detentrice del potere è lei, la «potèra» appunto, «quel taglio slabbrento, tutto piloso e immenso», che ci dà la vita e dunque ci condanna. «La gloria della figa comincia a mosterarsi solo ‘desso», dichiara la Ledi vittoriosa, prima di crollare sotto i colpi del pugnale di Macbetto – a sua volta ferito a morte dalla sua sposa. E questa detentrice di vita, che «ci ha cagà fuori tutti» dal cielo, ricorda molto dio, nell’ultima vertigine della prosa testoriana.

Questo universo privo di luce, ammantato da un perenne tramonto sanguinolento, è stato tradotto da Magnani in uno spazio meta-teatrale inaspettatamente sobrio. Il dramma si apre con Macbet in camerino, intento a truccarsi e a ripassare il coro iniziale. Fin dall’inizio il regista mette in chiaro il rapporto col pubblico, seguendo le orme del testo originale, e innesca un’ulteriore riflessione attorno al ruolo dell’attore.

Accanto a questo Macbet-Magnani perfetto, pavido e femmineo, dal volto sfigurato dal fango e dall’eloquio isterico venato di un qualche romagnolismo – che, alla faccia di tutti i puristi, funziona benissimo – c’è una Ledi esile, la cui presenza contrasta singolarmente col ruolo “rapace” affidatole dal dramma. Succede così che Consuelo Battiston si trovi più a suo agio nei momenti più sospesi e rarefatti di Macbetto (come il già citato momento della preghiera) subendo a volte la presenza esuberante di Magnani.

Diverso discorso va fatto per Eleonora Sedioli, la strega defecata da Macbet nella prima scena, la “verità vera” di questo personaggio. Il personaggio che Testori aveva immaginato come una sorta di blob carnoso privo di spina dorsale, viene interpretato dalla performer dei Masque con indubbia efficacia, stupendo il pubblico fin dalla sua prima apparizione. La Sedioli si vede a pezzi: una gamba, una coscia, un braccio, una mano ritorta, come se non fosse più nemmeno un’unità corporea ma un montaggio. Forse però avrebbe giovato a questo ruolo un dosaggio più centellinato della sua presenza, a cui si finisce per abituarsi.

Per tutto lo spettacolo il pubblico è immerso in un universo sonoro fatto di gorgoglii, peristalsi e visceri parlanti, in dialogo col clavicembalo di Chiara Cattani. Autore di questo pastiche è Simone Marzocchi, che non si è limitato alla musique concrète: la sua voce salmodiante accompagna il momento forse più memorabile di questo spettacolo, l’incoronazione di Macbet. Sorridente e insanguinato, a braccia spalancate come il Cristo che non sa di essere, stringe il suo scettro e il suo globo, bagnato da una pioggia di denaro tizianesca, diretta citazione di Ivan il Terribile di Ejzenštejn.

È con questo ghigno stampato nella mente che si torna a casa da Macbetto. E con la sensazione di aver assistito a una tappa importante per la scena teatrale romagnola: questa collaborazione fra compagnie, sebbene non priva di qualche imperfezione, ha mantenuto la sua promessa.
Che indichi una strada ripetibile?

Alcune immagini dello spettacolo di Federico Buscarino

 

Macbetto, o la chimica della materia
di Giovanni Testori
ideazione, spazio, costumi e regìa Roberto Magnani
con Roberto Magnani, Consuelo Battiston ed Eleonora Sedioli
musica Simone Marzocchi
coreografia Eleonora Sedioli
tecnica Luca Pagliano
clavicembalo Chiara Cattani
realizzazione scene Masque Teatro
squadra tecnica Teatro delle Albe/Ravenna Teatro: Danilo Maniscalco, Fabio Ceroni, Luca Pagliano; Antonio Barbadoro

cura video Alessandro Renda
foto di scena Enrico Fedrigoli
organizzazione Francesca Venturi, Ilenia Carrone
ringraziamenti Associazione Giovanni Testori, A.N.G.E.L.O., Sabrina Fiore, Matteo Gatta, Maria Rossini
coproduzione Teatro delle Albe / Ravenna Teatro, Masque Teatro, Menoventi / e-production

Visto il 12 ottobre 2018 al teatro Rasi

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