Quel “profumo” dell’uomo nel melologo su Panagulis di Elena Bucci

Elena Bucci Panagulis

Elena Bucci in “Nella lingua e nella spada” (foto Patrizia Piccino)

Il contrario della memoria non è l’oblio, ma la retorica. Lasciando morire una storia, perdiamo una parte di noi stessi. Ma se la mistifichiamo dolosamente, quella storia può mangiarci. Può diventare ideologia, annebbiarci la vista sul presente o giustificare le sue parti peggiori. La memoria è un fatto delicato, fragile e al tempo stesso potente: basta ritoccarla un po’, e da strumento d’emancipazione diventa strumento di propaganda. In altre parole, non esiste la memoria “pura”, ma l’intenzione di una memoria. E sulla base di quell’intenzione va giudicata la sua efficacia.

Nella lingua e nella spada, la nuova produzione di Elena Bucci, aveva tutte le carte in regola, almeno teoricamente, per trasformarsi in un altarino, pala d’altare bidimensionale per santificare Alekos Panagulis e Oriana Fallaci. Ma non l’ha fatto, e l’eleganza minimalista con la quale la Bucci è riuscita a scansare il pericolo va riconosciuta e ammirata – non solo per il grande lavoro che ha comportato, ma perché rappresenta un metodo percorribile per altri.

Lo scarto è piccolo ma essenziale, ed Elena lo dichiara prestissimo, all’inizio del melologo: non dirà la storia “esatta” di Alekos Panagulis, ma la sua memoria personale di quella storia. Elena fa della parzialità il grimaldello critico per avvicinare quella memoria immensa. Sentiremo i racconti delle torture e degli amori, ci meraviglieremo della stoica resistenza di Panagulis, avvertiremo la grandezza di quest’uomo libero e solitario, ma senza mai avere l’impressione di essere al cospetto di un superuomo, senza mai essere schiacciati dalla stazza di questo “esempio”.

Perché Panagulis, in Nella lingua e nella spada, è e non è Panagulis: lo è, in quanto referente esterno, protagonista della storia greca moderna e di Un uomo, capolavoro della Fallaci; non lo è, in quanto riscrittura drammatica di Elena Bucci, interpretazione di un uomo morto il 1° maggio 1976, tentativo di empatizzare una psiche fiera e rigorosa al punto da sembrare irreale o fantastica.

Se il libro della Fallaci, per ovvie necessità di elaborazione del lutto, aveva contribuito a nutrire il mito di Panagulis in tutta Europa – un mito dimenticato molto in fretta –, Elena Bucci cerca di vivere e far vivere l’uomo con gli strumenti della drammaturgia e del teatro. Non lo giustifica, non lo mitizza (sono tanti gli interrogativi che rimangono sospesi sulla scena, a spettacolo finito), ma cerca di comprenderlo entrandogli dentro la testa.

Il risultato è che Panagulis, a fine spettacolo, è un uomo, non un santo. Il che non significa affatto sminuirne la dignità o infrangerne l’esempio, ma significa liberarlo da quelle croste storiche e ideologiche che non permettono di assaporarne il “profumo”, come scrive Elena Bucci in una delle similitudini più belle del melologo – il profumo della sua presenza, dice Oriana, è l’unica cosa che rimane di quell’uomo e del suo sacrificio.

Elena Bucci

Elena Bucci (foto Patrizia Piccino)

A partire da una tempesta di domande (gli interrogativi incalzanti delle interviste di Oriana? o le grandi questioni che suscita questo personaggio?), la Bucci ci descrive il primo incontro dei due ad Atene, avvenuto in camera da letto “per stare più tranquilli”. Quindi dipinge Oriana, reclusa dal mondo per tre anni, intenta alla composizione di Un uomo; quasi spinta, per una proiezione psicologica, a rivivere sulla sua pelle la prigionia di Alekos.

Quindi parte il racconto cronologico della vita di Panagulis, che tocca gli episodi fondamentali senza scadere nel didascalismo, proprio in virtù di quel tentativo di cogliere i moventi e di raccontarli al pubblico. Perché Elena è lì, con loro, e cerca di giustificare le scelte più difficili di Alekos, le sue pulsioni interiori, la sua inesauribile resistenza psicologica, trainata dall’amore per l’umanità e dal sincero odio verso la tirannide e i suoi parassiti (riecheggiano le parole di Tempo di collera, poesia particolarmente dura: «(…) voi che respirate solo per morire | voi che solo per gli applausi avete mani | (…) sappiate allora voi | scuse viventi di ogni tirannia | che i tiranni li odio tanto | quanto ho nausea di voi»).

Capiamo la sua difficoltà ad abituarsi al mondo e alle sue storture; la sua ingenuità; la sua noncuranza quasi mistica nei confronti del dolore, che sembra celare un’oscura attrazione verso di esso; il suo rifiuto di ogni debolezza e compromesso, che lo portarono alla vanificazione apparente di tutti i suoi sacrifici. Qui s’incarnò il suo destino tragico, molto più che nel regime dei colonnelli. Un legame antico col dolore e con la solitudine, in nome di una libertà assoluta: così si è consumata la sua parabola umana, in un cupio dissolvi da cavaliere errante o da Don Chisciotte (come lo definisce Oriana, “sua Sancho Panza”).

Un legame forse rappresentato attraverso le corde nere presenti in scena, con le quali Elena gioca per tutta la durata dello spettacolo. Ora corde di tortura, ora muri della sua cella, ora supporto per un corpo sfatto dalle botte dei militari. Ai due lati, i musicisti Michele Rabbia e Paolo Ravaglia, concertati dai live electronics di Luigi Ceccarelli, creano un perfetto intreccio sonoro, fatto di fruscii inquietanti, scoppi, soffi di vento e boati, che si integra con efficacia al racconto – in alcuni punti quasi cantato – della Bucci.

Tutto è minimale ma efficace: la scenografia, il disegno luci, le melodie accennate, quasi a fare da controcanto al grande epos di questa vita. Allo stesso modo non c’è magniloquenza nella gestualità della Bucci: i suoi tipici movimenti rapsodici, quasi singhiozzi di nervosismo, nonché gli accenti delle piccole urla e dei sospiri, non sono qui decoro o orpello teatrale, ma accompagnano lo spartito come altri strumenti.

L’epitaffio scelto da Oriana per concludere la storia di Alekos, e dalla Bucci per chiudere il racconto, è tratto dalla tradizione greca. La sua tomba recita: «felice di essere libero, libero di essere felice» Quanti rimandi, quante sfumature diverse in questa semplice frase: romanticismo ed eroismo, pessimismo tragico e altissima dignità, accusa e assoluzione, tormento e liberazione. Una frase sibillina e incandescente, come la vita di Panagulis.

 

Nella lingua e nella spada
un progetto di musica e teatro ispirato alle vite e alle opere di Oriana Fallaci
e di Aléxandros Panagulis
elaborazione drammaturgica, regia e interpretazione di Elena Bucci
musiche live electronics di Luigi Ceccarelli
con
 le percussioni
 di Michele Rabbia
clarinetti di Paolo Ravaglia
disegno luci di Loredana Oddone
regia del suono di Raffaele Bassetti, Andrea Veneri
consulenza drammaturgica di Elettra Stamboulis
scene e costumi di Nomadea con l’aiuto di Marta Benini e Manuela Monti
assistenti all’allestimento Nicoletta Fabbri, Beatrice Moncada
foto di Patrizia Piccino e Gianni Zampaglione
una produzione Ravenna Festival, Napoli Teatro Festival/ Fondazione Campania dei Festival e Compagnia Le belle bandiere
produzione musicale Edison Studio – Roma

Visto all’Alighieri il 12 luglio 2019

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