Quel mondo perduto rievocato nel rito laico di “Pane e petrolio”

Pane Petrolio 1È difficile capire se la nostalgia che trasuda questa inedita collaborazione tra Luigi Dadina e il Teatro delle Ariette sia puramente elegiaca o non piuttosto politica. Entrambe le interpretazioni sono aperte.

C’è, innanzitutto, in questo Pane e petrolio (forse uno dei titoli più belli che abbia incontrato in teatro negli ultimi mesi) la celebrazione di un’umile Italia scomparsa. Le storie famigliari e le biografie dei quattro attori sulla scena si intrecciano per cantare l’epicedio di un mondo scomparso. È l’universo dell’infanzia perduta che viene celebrato, abbozzato in rapidi ritratti quasi impressionisti: gli oggetti, le contraddizioni, i lavori degli anni ’60, i padri scampati alla guerra, le chitarre che suonano sulla spiaggia, le madri perennemente in cucina.

L’evocazione del passato culmina con la chiamata dei morti. Ecco parlare i fantasmi del padre della Berselli, comunista disilluso, chiuso nel silenzio ostinato della sua camera da letto; o della madre di Dadina, eterna lavoratrice, che nel momento forse più toccante dell’opera rassicura il figlio sessantenne spaventato dai tuoni.

La cena preparata e condivisa con gli spettatori, nell’inconfondibile stile delle Ariette, muta in rito sacro. Il racconto si fa preghiera, ex-voto a una realtà defunta; il cibo consumato diventa offerta agli antenati e ai loro ideali, che la scena – stupenda – concretizza in un altare dedicato alla Madonna e alla falce e martello, impreziosito da garofani e gigli. I gesti (la preparazione della sfoglia, la chiusura dei tortelli, il taglio del pane) sono le partiture precise di una messa laica che gli autori stanno officiando per i loro commensali.

Pane Petrolio 2Ma c’è anche una nostalgia sottilmente politica nella malinconia che attraversa i racconti, nonché nella parole di Pier Paolo Pasolini – un’altra forza del passato che per tutta la vita ha celebrato la morte di un’epoca. L’età del pane che soccombe all’età del petrolio; il tramonto dell’esistenza sacra dei semplici e della loro cultura millenaria; la doppia tragedia di un popolo mutato dal consumismo e di un artista che non riesce più a dissolversi in quel flusso vitale che era allo stesso tempo amore e conoscenza.

«Solo l’amare, solo il conoscere | conta, non l’aver amato | non l’aver conosciuto»: così suona l’incipit de Il pianto della scavatrice, poesia di Pasolini scritta nel ’56, a cui gli autori affidano la chiusura dello spettacolo. È, ancora una volta, un’elegia per un mondo che muore e il rigetto del mondo che sta per nascere; è lo spaesamento dell’intellettuale che rischia di perdere la voglia di comprendere e amare il suo mondo. «La luce | del futuro non cessa un solo istante | di ferirci», suona icastico un altro verso del poemetto.

E proprio come accade spesso nelle pagine di Pasolini, anche lo spettacolo di Dadina, Berselli, Pasquini e Ferraresi rischia, nei passaggi meno ispirati, di scadere in una geremiade. La nostalgia politica, ovvero il disamore e l’incomprensione dell’età del petrolio, diventa da una parte critica ingenua al presente, misoneismo (penso al lamento sui sentieri di collina ormai invasi dai runner, dai ciclisti, dai pescatori); dall’altra, un rifugiarsi da bestie ferite nella riserva naturale dei bei tempi andati (i vestiti che un tempo non si buttavano mai via).

È quando lo spettacolo ama e conosce il suo oggetto, che funziona; è quando cessa di amarlo, quando prova a denunciare le brutture del presente, che diventa retorico. Ciò che invece stupisce e rapisce sempre è l’intensità di Dadina, anima terrigna eppure trasparente; e la grazia leggera delle Ariette, l’aria domestica che sempre fanno respirare.

 

Pane e petrolio

con Paola Berselli, Luigi Dadina, Maurizio Ferraresi, Stefano Pasquini

regia Stefano Pasquini

collaborazione Laura Gambi

organizzazione Irene Bartolini, Veronica Gennari

tecnica Dennis Masotti

coproduzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Teatro delle Ariette

Visto al Rasi il 26 settembre 2019

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