Sull’artista che si fa mangiare la faccia: il caso di Matteo Lucca

Matteo Lucca SculturaCosa può succedere se si uniscono la scultura, il corpo umano e… il pane? Non è facile gestire l’argomento senza cadere in osservazioni lapalissiane, trite, pseudo religiose, blasfeme o grottesche, che possono spaziare dal cannibalismo, all’ostia, fino all’Omino Pan di Zenzero di Shrek. Ma questa rubrica tratta la materia oscura che si annida negli universi creativi possibili, quella che, nonostante sia visibile, non si sa cos’è, ma solo cosa di sicuro non è. Quella che – si vocifera – possa aver ucciso i dinosauri o estinto chissà quante altre specie di incauto fruitore, attratto dalle conturbanti malie della cosmologia artistica e fatalmente disperso nell’oscurità delle sue galassie stellate come George Clooney in Gravity.

Quindi il forlivese Matteo Lucca (1980) che crea non con “la materia dei sogni”, ma con quella del fornaio, è il pioniere perfetto per aprire questa Guida galattica per autostoppisti nell’universo creativo delle arti visive romagnole.

Premesso che il pane, nelle sue sfaccettatissime declinazioni, è dall’alba dell’umanità l’alimento trasformato per eccellenza, consacrato sugli altari, brandito a vessillo nelle rivoluzioni e spregiato nelle leggende metropolitane sui sovrani francesi amanti delle brioches, e proprio per via di queste caratteristiche è stato scelto da Lucca come materia artistica, l’idea compiuta di calarlo in una sorta di fusione identitaria con la propria persona arriva dalla scintilla del Buddhismo tibetano che invita a “mettersi a disposizione degli altri”, quindi all’ascolto, all’aiuto, al nutrimento nel senso più esteso possibile.

Così Matteo costruisce con le sue mani un forno e si ricrea in un autoritratto di pane per sfamare i bisogni degli altri. Le sue sculture campeggiano nello spazio con una imponente presenza data dai volumi a grandezza naturale, realizzati con la tecnica del calco dal vero, dalle imperfezioni delle superfici e dalle bruciature che, nell’insieme, compongono una visione dall’aspetto “pompeiano”. E le “cadute” in questo caso non sono le semplici rotture degli elementi aggettanti causate dalla mano pesante del tempo (la stessa che ha fatto strage di nasi e braccia nella statuaria classica), ma dei veri e propri assaggi da parte di animali. Un asinello ha degustato un braccio, mentre una nuca è servita come vitto e alloggio per una famiglia di topolini: entrambe le specie hanno lasciato una traccia d’oro del loro passaggio, perché l’artista ha deciso di contrassegnare con il battesimo del metallo prezioso i punti esatti in cui la materia è diventata nutrimento ed ha quindi assolto alla sua funzione più nobilitante.

E così, dopo le incursioni nella natura del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, ora gli uomini di pane sono in cattività al Magazzeno Art Gallery di Ravenna per il site-specific “Gold Wears Down” (fino al 24 febbraio) e attendono i visitatori in attesa di un finissage… tutto da masticare.

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