Il thriller non banale di Camilla Sten

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Thriller psicologico che gioca su alcuni archetipi del genere, Il villaggio perduto di Camilla Sten, appena pubblicato in Italia da Fazi per la traduzione di Renato Zatti, è un romanzo che ha molti pregi, in primis quello di travalicare i confini del genere per toccare temi profondi, trasversali e attuali. Come si intuisce dal titolo, l’ambientazione è quella di un luogo sperduto e disconnesso dal mondo, un villaggio abbandonato da anni in modo improvviso e misterioso. Qui arriva un gruppo di trentenni a sessant’anni di distanza per girare un documentario e cercare di scoprire cosa sia accaduto davvero. Il libro mescola una cronaca del presente a quelle del passato, fornendoci un po’ alla volta i pezzi necessari a ricostruire il puzzle. Per Alice, che guida il gruppo in missione ed è la voce narrante, è anche l’occasione di riscatto da una vita che fino a quel momento non le ha offerto grandi soddisfazioni.

Alice è la nipote di una donna, Margareta, che aveva abbandonato quel luogo per trasferirsi a Stoccolma e che aveva continuato per lungo tempo a ricevere le lettere della sorella minore Aina e dalla madre. Per tutta la vita Margareta aveva cercato di capire cosa fosse successo e aveva raccolto tutti i materiali pubblicati sulla vicenda, che ci offrono quindi un punto di vista esterno oltre a uno scarto nel ritmo della lingua. Il villaggio, sessant’anni prima, era stato trovato deserto eccetto per una neonata viva e il cadavere di una donna legato a un palo e lapidato. Cosa era successo? Dove erano finiti tutti gli altri abitanti? Una serie di eventi inquietanti ci portano sull’orlo dell’horror e la costruzione del romanzo segue le regole della suspense: ai momenti di terrore (chi? cosa si muove in quel posto abbandonato da dio?), seguono momenti di relax, racconto, chiarimento tra i vari personaggi, esplorazione dei luoghi e dei personaggi.

L’atmosfera si fa da subito piuttosto cupa e poi via via sempre più angosciante, il sospetto di una spiegazione “irrazionale” fa capolino più di una volta, fino al disvelamento di cui ovviamente non diremo di più. Ciò che può valere la pena è invece sottolineare come si tratti di un thriller con molta introspezione psicologica e grande attenzione al mondo femminile, alla trasmissione intergenerazionale, ai temi della maternità, della violenza, del senso di colpa. L’autrice lo dice nella prefazione, era nato come un libro che doveva essere “fun”, divertimento, ed è diventato un libro che parla innanzitutto della malattia mentale femminile e del suo stigma. Insomma, un libro perfetto come thriller, ma non solo, una lettura scorrevole ma che costringe anche a riflessioni non banali.

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