Il punk e la rivoluzione sostenibile nel vestiario dei giovani romagnoli

Nel ’94 questa cosa del punk, del nuovo punk intendo, diventò un affare di prima grandezza del rock: tutti ne parlavano, tutti l’ascoltavano eccetera. In quell’anno erano successe diverse cose: Kurt Cobain si era suicidato, intanto, e poi era uscita una sfilza di dischi che sembravano perfetti per la programmazione di MTV di quel periodo. Dookie dei Green Day a febbraio, Smash degli Offspring ad aprile, Punk In Drublic dei Nofx in estate. Oddio, i Nofx odiavano MTV, erano un po’ più punk degli altri. La loro canzone più conosciuta fino a quel momento, e forse in generale, era un pezzo di tre minuti scarsi che si chiamava “Bob”. “Bob” parla di un tizio che dopo una vita di sbronze inizia ad avere grossi problemi al fegato; costretto a cambiar vita, si rasa la testa e inizia a frequentare i concerti punk, passando il tempo a menarsi con gli altri frequentatori. Però almeno ora è astemio. Fin quando durerà? Will he ever walk the line? Non si sa.
A quei tempi, nel paesino dove vivevo (Calisese di Cesena, l’ultima frazione in pianura prima di salire verso Montiano o Longiano o Sorrivoli), se dicevi BOB nessuno pensava ancora ai Nofx. Il punk come sottocultura non aveva attaccato manco alla fine dei settanta, figurarci all’inizio dei novanta: qualcuno ascoltava i Nirvana, ma nessuno era davvero depresso, o comunque non per moda. Le uniche due sottoculture tra cui quelli della mia età potevano scegliere erano i rasta e i rapper. In senso stretto nemmeno queste erano vere e proprie sottoculture, nel senso, nessuno dei rasta del mio paese era effettivamente rastafariano, e nessun rapper si è mai applicato in una delle quattro discipline a parte una ragazza-writer che stava due anni sotto classe mia e di cui ero segretamente innamorato. Si intendeva per rapper una persona vestita con quei nuovi abiti oversize che si compravano a Cesena e ascoltava quel po’ di rap che passava il convento (quasi tutta roba italiana e perlopiù fetida, Articolo31 eccetera). I rasta erano ragazzi che indossavano pantaloni a zampa d’elefante, clark ai piedi e BOB nello stereo. BOB, sottinteso Marley, era il cantante dei Wailers: la lista di ascolti era abbastanza ridotta da potersi permettere di usare il nome di battesimo per quasi tutti i cantanti. Oltre a BOB andava molto forte JIM, cantante dei Doors, anche lui (oggi non saprei dire perché) ascoltato dai rasta. Io detestavo sia BOB che JIM, e quindi iniziai a chieder soldi alla mamma per comprare qualche vestito oversize. Di rap ne sapevo pochissimo, mi piaceva più che altro il rock duro, ma chi se ne fregava (c’erano i Body Count, alla peggio).
Allora, questo pezzo dovrebbe parlare di un manipolo di gruppi che lungo l’estate suoneranno qui in Romagna, e che ricadono in un preciso canone musicale – il punk californiano degli anni novanta di cui sopra la scuola Epitaph/Fat Wreck, Nofx Offspring e Pennywise (più altri che quest’estate non suoneranno in Romagna ma secondo me dovrebbero, che so, i Rancid). Se volete avere una discussione su questa roba, ne so abbastanza e non c’è problema, ma in questo particolare momento non ne ho voglia. Piuttosto, mi piacerebbe spendere due righe per puntualizzare l’impatto determinante di quella roba sul vestiario dei giovani della provincia romagnola, il potere uniformante del punk rock anni novanta, che fece sparire d’un botto rapper e rasta e tutte le altre micro-sottoculture del fashion, facendo diventare tutti skater.
Gli skater era una sottocultura più o meno uguale alle altre, vale a dire che potevi tranquillamente essere uno skater senza dover imparare ad andare su uno skateboard. Bastava avere certi vestiti, certe scarpe, e un’infarinatura musicale di base. Dicevamo, era il 1994, dall’estate in avanti: arrivarono questi gruppi nuovi, c’erano i gruppi vecchi di cui tutti avevano un po’ cognizione di causa (Bad Religion, Dead Kennedys, Pistols, Gorilla Biscuits etc), erano cattivi ma melodici, mettevano d’accordo tutti. Così smettemmo tutti di ascoltare il rap e il reggae, e ci buttammo. Passare dall’essere rapper all’essere skater non comportava esborsi significativi. Potevi utilizzare gli stessi pantaloni, a patto che non fossero troppo orientati sul versante Sbirulino/Vanilla Ice. Le magliette erano da sostituire ma quelle degli skater costavano poco: la stampa di qualche gruppo, le t-shirt in tinta unita del supermercato. Dai piedi sparirono quelle brutture cosmiche che imperversavano fino ai primi anni novanta, le Nike Air Jordan a cinque colori e le Reebok con la pompetta, sostituite da normalissime scarpette in cuoio griffate Vans o AirWalk; costavano uguale, ma erano molto più sobrie. Una volta rasati i capelli, era tutto perfetto. Anche i rasta potevano diventarlo a costo zero: tutti i jeans che avevi in casa, a parte quelli a campana, potevano essere jeans da skater, bastava abbassare il cavallo dei pantaloni fino a far vedere la parte superiore del culo. Volendo, i gruppi californiani avevano perfino qualche pezzo ska o reggae. E poi, boh, volendo potevi provare a salire su una tavola e andare a vedere qualche contest, interessarti all’estetica, imparare chi fossero Pushead e conoscere qualche local hero dello skate, ma non era così necessario. La parte più divertente: per un certo periodo i ragazzi mollarono BOB e si misero tutti ad ascoltare “Bob”, smisero di suonare i tamburini del cazzo e iniziarono a menarsi nelle piste rock dei posti che c’erano allora (Rock Planet, Vidia, Rigolò eccetera).
Fu una rivoluzione. La parte migliore: fu una rivoluzione sostenibile. Una volta sparite le interpretazioni più radicali del movimento skate-punk (colla di pesce sui capelli, acqua ossigenata, pizzetto lunghissimo), si capì che era un modo di vestire non così impattante e descrittivo, in cui era possibile invecchiare. Così, piano piano, finì per diventare uno standard generale del vestire. Cinque o sei anni dopo anche i gentili avevano compreso la superiorità dei pantaloni a vita bassa, e per il ’99 era diventato fisicamente impossibile trovare jeans che si legavano in vita. I pantaloni oversize hanno pian piano smesso di esistere, certo, ma i jeans rotti e rattoppati continuano ad andare un sacco –persino i manager sessantenni ne indossano un paio ogni tanto. Mollammo tutti Offspring e Pennywise, certo: oggi sopravvivono più che altro come monumento a un’epoca a cui guardiamo con quel briciolo di tenerezza stile “ma quanto cazzo eravamo sfigati”. Il punto è che siamo vestiti più o meno come ci vestivamo allora, e forse conserviamo un paio di magliette di quell’epoca e i jeans Levi’s rattoppati ai tempi dalla zia Adelina che la prima volta che ce li han visti addosso stavano sbrodolando. Domenica ero in bicicletta su viale Randi ed è passata una Multipla coi finestrini abbassati e “Redemption Song” a palla. La sera ho ripescato il disco dei Nofx e ho risuonato “Bob” a palla. A un certo punto ci sono anche dieci secondi di chitarre in levare, poi ricominciano tutti a menarsi.

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