Quando il rock si unisce alla “sensibilità della tradizione cantautorale italiana”

Dai Marlene Kuntz ai Baustelle, fino alle Luci della Centrale Elettrica, quantomeno una roba onesta

Vasco Brondi, in arte Le Luci della Centrale Elettrica

Quando è iniziata tutta questa manfrina la musica era molto diversa, andavano di moda altri suoni, altre ideologie, eccetera. La principale, parlando di rock rap ed elettronica, era quella secondo cui la commistione tra generi era tutto sommato una cosa buona. In un momento nel quale i generi puri andavano stagnando, il cosiddetto crossover sembrava in procinto di salvare tutti quanti: casse hip hop dietro musiche metal, parti rappate in canzoni rock, inserti di elettronica, uno spruzzo di musica etnica. C’è uno strano processo di rimozione collettiva su questa cosa, nel senso che dal 2000/2001 la gente ha iniziato a non volerci avere più nulla a che fare, ma negli anni precedenti molti di noi si sono comprati dischi metal con inserti casuali di ritmi latini (Puya), d&b di terza categoria con inserti di chitarroni tamarri (Prodigy) e anche di p

eggio. Nel magma ideologico dell’epoca erano cose che andavano bene, poi alcuni hanno ricominciato a suonare rock e metal alla vecchia e non c’è voluto molto a capire che si trattava di una marea di minchiate. Nel giro di tre anni alcuni dei più accaniti sostenitori del pantalone oversize avevano comprato un paio di Cheap Monday, e da lì in poi valeva tutto.

Al di là delle questioni umanistiche, questa musica viene da quel periodo. O meglio, da un’interpretazione sbagliata e forzosa di quel periodo portata avanti da una critica musicale che s’era levata la spina dorsale dieci anni prima senza dare da intendere di aver sofferto nel farlo. Non so chi sia stato il primo a parlarne in questi termini, ma una volta messa su carta l’idea ha iniziato a spargersi a macchia d’olio. “Unire la spigolosità dei nuovi suoni del rock americano alla sensibilità della tradizione cantautorale italiana”. Se Catartica dei Marlene Kuntz fosse uscito sei anni dopo mi sarei rifiutato di ascoltarlo solo per il titolo che aveva. Nel ’94 era una cosa che – a quanto pare – aveva un suo senso. Poi è uscito Germi degli Afterhours e i giochi erano già fatti. Negli stessi anni a dire il vero io scoprivo i Crunch e roba simile: non voglio dire fossero meglio o peggio (erano meglio), ma non era fisicamente possibile ascoltare le due cose contemporaneamente. Quando ho iniziato a mettermi in casa i dischi di ‘sti gruppi, erano già diventati roba di cui sembrava obbligatorio avere almeno un’infarinatura; si erano accavallate due o tre generazioni (quella dei CSI e simili che facevano da zii, i vari After/Marlene/Subsonica/Africa Unite, e la roba successiva tipo Verdena o Perturbazione).

L’idea che si potesse fare un “cantautorato rock” all’italiana, in barba ad ogni possibile senso logico, è durata almeno un decennio. Una cosa di cui non si parla spesso è il modo in cui ha ucciso l’idealismo ruock negli strati più bassi della popolazione. Per capirci, l’underground ha cambiato suono molto in fretta: le cover band che fino a sei mesi prima suonavano medley Vasco/Liga/Litfiba in birreria con al microfono un esaltato con le basette alla Pelù, nel giro di tre anni ci costringevano ad ascoltarli recitare haiku con la chitarra distorta e si imbarcavano in side-band di tributo a Tenco, De Andrè o Rino Gaetano. Da un certo punto di vista era comprensibile che prima o poi questa cosa portasse all’unica logica conclusione di questa avventura: stante che i dischi di Lucio Dalla sono roba tendenzialmente incredibile e i dischi dei Marlene sono tendenzialmente delle infinite palle al cazzo, la prima generazione di alternativi all’italiana ha covato una seconda generazione di wannabe-cantautori. Le teste di serie sono da identificare in Morgan (uno a cui comunque va datto atto di avere iniziato a menarla con i Battiato e i Claudio Rocchi prima di tutti gli altri) e nel ciclone-Baustelle, un gruppo il cui primo disco riuscì ad intercettare lo spirito del tempo in un modo che nella comunità indie non s’era visto dai tempi di Hanno ucciso l’Uomo Ragno. Nel frattempo la vecchia guardia del rock alternativo italiano cercava di adeguarsi, allentando i toni della musica e provando infinite joint-venture ai limiti del ragionevole (i Marlene Kuntz duettarono con Skin quando gli Skunk Anansie erano una roba di cui si parlava); Ferretti perdeva la brocca, si consegnava al cattolicesimo spinto e dava alle stampe il suo miglior disco di sempre, Co.Dex. Tutti gli altri iniziarono un pellegrinaggio senza senso nelle lande della post-ideologia musicale. A metà anni duemila uscì Socialismo tascabile degli Offlaga, che oltre a essere divertente si legava un po’ vagamente a questa idea, e fece piazza pulita di consensi. Quello che sbancò tutto, in ogni caso, fu un ragazzetto che faceva il barista in un posto verso Poggio Renatico e aveva messo su questo progetto scalcagnato in cui cantava strofe senza senso accompagnandosi con una chitarra acustica. In quegli anni il MEI lo facevano ancora alla fiera di Faenza; i gruppi suonavano in condizioni di fortuna, nella metà di destra del palco, mentre a sinistra c’era il soundcheck del gruppo successivo. Lui si prese male e salì a suonare senza microfono, su un banchetto di dischi. Sono quelle cose che se le hai viste ne parli a distanza di giorni, la versione alla carbonara di quella volta che diedero del giuda a Bob Dylan. Il disco uscì per la Tempesta e fu un successo, la roba che ascoltarono tutti quell’anno. Si chiamava Le Luci Della Centrale Elettrica.

Con tutto quel che gli puoi dire, quantomeno era roba onesta. Vasco Brondi suonava palesemente la musica che voleva suonare, in un modo personalissimo e – diciamo – mai sentito prima. Una volta che s’è visto quanto funzionava, il concetto di rock alternativo italiano ha praticamente smesso di esistere come concetto. La roba che ascoltiamo oggi è cantautorato puro, che sia roba con aspirazioni alla De Gregori (Brunori SAS), tardovendittismi da supermercato (TheGiornalisti) o maldestri tentativi di fare quando va bene il Tenco o il Jacques Brel (Capovilla) e quando va male Claudia Mori (ancora i Baustelle), il tutto modellato su una fantomatica età dell’oro dove i padri spirituali di questa roba riempivano gli stadi, portavano soldi all’etichetta e con ogni probabilità riuscivano perfino a scopare. È così che siamo finiti nella palude concettuale di un costante tributo ad un passato che fino a vent’anni fa eravamo felicissimi di esserci scrollati di dosso, e che oggi continua a tornare a chiedere il proprio tributo. Così adesso quando sento che uno di questi nomi viene a suonare in zona mia metto metaforicamente mano alla pistola e cerco forsennatamente quel disco degli Entombed che tengo sempre in macchina – o almeno Lo Stato Sociale, che quantomeno si degnano di buttar tutto in caciara. Altro che “la sensibilità della tradizione cantautorale italiana”.

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