«Non avrei mai pensato che un giorno sarei riuscito a vedere un concerto di…»

Non so se vi si è mai materializzato in testa questo pensiero, a me è capitato spesso: “non avrei mai pensato che un giorno sarei riuscito a vedere un concerto di XXXX”. Succede per una combinazione di diversi fattori, piuttosto casuali, e coinvolge quasi sempre dei festival. Una volta ad esempio vidi un concerto di Patty Waters ad un festival. Un mio amico, lungo la giornata, disse “avresti mai pensato che saresti riuscito a vedere Patty Waters dal vivo?”. Non l’avrei mai pensato, ovviamente, ma tutto sommato è perché non mi ero mai preso il disturbo di pensarlo.

Poi mi ricordo di aver pensato “non vedrò mai un concerto di PJ Harvey”: sono stato un buon ascoltatore di PJ verso fine anni novanta, ma non avrei mai pensato di uscire i soldi che servivano per vederla dal vivo, e magari fare un viaggio a Milano. Poi la beccai ad un Heineken Jammin’ Festival, a Imola (mi fa sempre sorridere questa cosa delle città qui vicino, cioè è un festival in un autodromo e tutto, ma ti trovi a dire a te stesso “ho visto una dea del rock a Imola”, cioè, su, io Imola non la considero manco per andarci a mangiare la pizza), e passai tutto il tempo a pensare che avevo coronato un sogno in maniera del tutto accidentale e fortuito. Non fu un gran concerto, comunque.

Poi ricordo ad esempio di aver pensato “ti rendi conto? Sono a un concerto dei Refused”, una quindicina d’anni dopo lo scioglimento dei Refused – mi ero impuntato sul fatto che non avrei visto il reunion tour e poi annunciarono una data a 50 metri da dove abitavo. Sono cose complicate. È che io sono cresciuto con questo mito di essere relegato in una sorta di periferia dell’impero nella quale non succede mai un cazzo e se succede qualcosa di buono, sta succedendo meglio a Bologna. Con questo atteggiamento ovviamente mi sono bruciato un botto di cose carine che avrei potuto vedere, venti o venticinque anni fa, sotto casa mia; non mi interessava troppo perché fare il piagnone può avere una sua dignità in sé. Oggi fortunatamente sono cresciuto e non la meno più con l’ossessione del ritardo culturale da periferia, e anzi quando mi parlano di com’è fiorente la situazione a Milano (o peggio ancora, BERLINO) vado al circolo Endas e ordino uno shottino di cicuta. Ma un po’ di ossessione del qui non passano mica tutti e bisogna accontentarsi credo mi sia rimasta.

A un certo punto era diventato assolutamente necessario vedere un gruppo postpunk chiamato Yeasayer e qualcuno si organizzò per fare questa trasferta milanese; ricordo di aver sentito questi discorsi roso dall’invidia e di aver pensato “cazzo questi vanno dove succedono le cose e io sono qui a flammare su myspace”. Un paio d’anni dopo gli Yeasayer fecero un concerto disgraziatissimo all’HanaBi e mi sono immaginato cosa avrei provato rendendomi conto di aver fatto sei ore di macchina per vedere un concerto del genere.

Una volta ho visto i Negramaro, pensando per tutto il tempo “ma ti rendi conto che sto vedendo i Negramaro?”. Erano ancora in giro con quel disco in cui tutte le canzoni a un certo punto parlano della neve, e pensavo fossero la peggior cosa musicale che avessi mai sentito, poi erano di spalla ai Depeche Mode e quindi li vidi – e furono pure bravi, se devo essere sincero. I Negramaro sono uno di quei gruppi tipo Radio Deejay-oriented che chiamano il loro pubblico col nome della città in cui si trovano. “CIAO IMOLA! SIETE CARICHI?”. Vaffanculo.

Una volta ho visto Jovanotti! Ero in quel locale che sta sotto Atlantica, a Cesenatico, e lui per qualche motivo fece questa serata speciale, suonò un paio d’ore in full band per un paio di cento persone.

Quando ero ragazzino a un certo punto i Guns’n’Roses annunciarono dei concerti a Modena e io pensai qualcosa tipo “ma ti rendi conto che potrei trovarmi nello stesso chilometro quadrato di AXL”, poi non presi il biglietto del concerto – avevo smesso di ascoltarli da tempo, mi piacevano altre cose e bla bla bla.

Una volta mi ero fatto un giro a San Marino, sono passato da Sant’Aquilina e c’era un po’ di casino davanti all’ingresso – chiesi se c’era un concerto e mi feci convincere a guardare un disgraziato live dei 99 Posse (tre ore di concerto più una e mezzo di Assalti Frontali, o qualcosa del genere). Una volta pisciai i Public Enemy a Rimini, avrò avuto 17 anni, e rimasi incazzato per due mesi o qualcosa del genere – poi li vidi a Bologna dopo i 30 pensando “cazzo è pazzesco che io abbia l’occasione di vederli”. Le cose vanno in modi inaspettati.

TR5 PAN AMERICAN

Mark Nelson in concerto con il progetto Pan American all’Almagià di Ravenna nell’ambito dell’edizione 2012 del festival Transmissions del Bronson. Sei anni dopo, il 17 novembre, l’appuntamento con il gruppo americano sarà allo Spazio Tondelli di Riccione

Invece i gruppi come i Pan American pensi che non li vedrai mai perché proiettano un’idea particolare di sé. Non so, come se fossero sempre da un’altra parte rispetto alle tue coordinate spaziotemporali. Non so se sapete chi sono i Pan American, comunque di base sono una persona sola – un tale di nome Mark Nelson, famoso per aver suonato negli anni novanta in un gruppo che si chiama Labradford, ed è probabilissimo che se non conoscete i Pan American non conosciate nemmeno loro. Comunque i Labradford erano uno di quei gruppi per cui era stata coniata la definizione di “post rock”, facevano una sorta di rock cosmico intimista iperespanso, complessissimo ma di ascolto facile, e Mark Nelson a un certo punto forse aveva deciso di fare qualcosa di ancora più espanso e cosmico e intimista, e aveva fatto questo disco a nome Pan American – a cui ne sono seguiti altri, sempre su Kranky, etichetta ultraspecializzata in questo genere di ambient-post-drone-dupalle in cui non succede mai nulla ma in maniera strutturatissima (il cui primo disco non a caso era dei Labradford). I dischi Kranky hanno questa capacità magnetica di chiederti di essere comprati, nel senso che li vedi al negozio di dischi ed è come se pulsassero – li tocchi un po’ li porti a casa, li metti su e vieni avvolto dalla magnificenza del suono. Poi il disco finisce e di solito lo riponi in quella parte dello scaffale dove stanno le cose carine e tutto ma che non rimetteresti sul piatto nemmeno se ti pagassero. I Pan American fanno solo parzialmente questo effetto: sono un progetto etereo e palloso ma hanno un assetto leggerissimamente più rock e una scrittura piuttosto fascinosa, quindi puoi suonarli mentre stai bevendo vino con una persona del sesso opposto, preferibilmente più sofisticata della media. E quindi in qualche modo la loro roba tende a rimanere a portata di mano e a venir suonata. Però è così minuscola eterea ed intimista da dare l’idea che nessun altro essere umano al mondo possa essere davvero interessato a sentirla, e quindi nessuno si sbatterà mai per portare Mark Nelson a suonare dalle nostre parti. Nel mio caso ovviamente devo ringraziare Transmissions, il festival di Ravenna, che in un’edizione di metà corsa lo portò all’Almagià e gli fece tenere uno dei concerti più belli e posati che io abbia mai visto. Ed ero lì e pensavo, cazzo, sto vedendomi i Pan American dal vivo. Ti rendi conto? In Romagna. Pazzesco. Voglio dire, quando mai può ricapitare una cosa talmente assurda? E invece.

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