“In periferia fa molto caldo…”. Sempre meglio che Takagi & Ketra

Il caso Mahmood, tra tormentoni estivi, la quota di canzoni italiane in radio e un mondo dove il vincitore di Sanremo determina l’agenda politica

Mahmood

Detesto i tormentoni estivi. Oddio, a dire il vero alcuni mi piacciono, ma mi dà fastidio l’idea che sia necessario produrre canzoni di un certo tipo per far sì che il popolo italiano percepisca in ogni istante il mood estivo. Ci pensavo qualche giorno fa, seduto su uno sdraio a scrocco a Casal Borsetti mentre il mio vicino di ombrellone stava suonando per la terza volta alla figlia l’ultimo singolo di Takagi & Ketra feat. Giusy Ferreri. Non ho niente contro Takagi & Ketra né tantomeno contro Giusy, ma è evidente che la parabola artistica del terzetto sia in drammatica discesa e continuare ad ascoltare la loro roba in repeat ci porterà in un abisso di sofferenza umana.

E poi sembra, sai, quel tipo di latinoamericanismo all’amatriciana fatto apposta per aggirare le turbe di Morelli e alzare in maniera proditoria la quota italiana nelle radio nazionali. Voglio dire, non sarebbe meglio che di questa merda si occupassero i Luis Fonsi?

Ok, probabilmente non sapete di cosa sto parlando. Lo spero per voi, quantomeno. Mi riferivo a un disegno di legge proposto dal deputato leghista Alessandro Morelli un bel giorno di metà febbraio 2019: per contrastare la spiacevole piega esterofila delle radio commerciali, andrebbe imposto per legge che ogni radio operante nel territorio nazionale trasmetta musica italiana per almeno un terzo del proprio spazio-programmazione. I dati che arrivano dalle dieci radio più ascoltate sono preoccupanti, a sentir lui: la quota di italiani sta sotto il 25 percento, contro il 35 di dieci anni prima. Morelli, e molti commentatori, spingono a considerare l’esempio virtuoso della Francia: le radio francesi hanno una quota nazionale e la rispettano, e questo probabilmente ha permesso l’esistenza dei Daft Punk.

Non è la prima volta, comunque, che qualcuno propone una cosa del genere, a dire il vero. Se vi piace leggere di musica vi sarà sicuramente capitato di leggere interviste ad artisti e operatori di settore che propongono da decenni misure di questo genere. Un caso vicino a noi è quello del Mei, che si fa alfiere di questa battaglia da anni, ma anche molti cantanti pop con fama di esteti hanno proposto queste manovre negli anni (magari sostituite italiano con emergente o indipendente). In quest’ottica si spiega pertanto una lettera scritta a fine febbraio da Mogol, presidente Siae, che invita gli iscritti a sostenere la proposta del Governo.

Ora, a livello di gusti personali mi sento obbligato a dire che, piuttosto che sottoscrivere un appello cofirmato dalla Lega e da Mogol io scelgo le locuste, ma lasciamo perdere. Il principale motivo per cui questa proposta piace molto alla politica è che, diversamente dalle altre mosse per sostenere lo sviluppo della musica italiana, questa non costa soldi.

Per rendersi pienamente conto della serietà del tutto credo sia necessario fornire un po’ di contesto in più. Ad esempio Alessandro Morelli è stato direttore di Radio Padania dal 2013 al 2018, il che significa che in un anno scarso è passato dal dirigere il megafono degli ultras della secessione a firmare una proposta per salvaguardare l’identità nazionale delle radio. Un’altra cosa interessante è che la proposta arriva a una decina di giorni dall’incontro tra esponenti del governo di cui Morelli fa parte e i gilet gialli, un episodio su cui si è sfiorato un incidente diplomatico tra Italia e Francia. Terza cosa, l’annuncio di Morelli arriva a una settimana dalla vittoria di Mahmood al festival di Sanremo.

Non so se vi ricordate cos’è successo: per la vittoria al Festival c’è stato un testa a testa abbastanza serrato tra due artisti. Al televoto Ultimo stava vincendo in maniera abbastanza schiacciante, ma il voto dei giornalisti ha rovesciato il risultato finale e ha fatto vincere il pezzo di Mahmood. Ultimo ha preso molto male questa cosa, ha rifiutato di posare per TV Sorrisi e Canzoni, non s’è presentato dalla Venier il giorno dopo e ha accusato i giornalisti di qualcosa. Il ministro dell’Interno Salvini ha commentato a caldo dicendo che avrebbe preferito vincesse Ultimo. Il ministro del Lavoro Di Maio, un paio di giorni dopo, ha proposto una riforma della legge elettorale per decretare il vincitore di Sanremo: bisogna far decidere la gente ed esautorare la casta dei giornalisti. Se vi sembra un modo un po’ troppo serioso di affrontare la cosa e/o una materia su cui almeno i due vicepresidenti del consiglio dovrebbero avere la buona creanza di non intervenire, probabilmente avete ragione. Ma dall’altra parte Sanremo tende ad incrociare la politica in questi modi buffi, come quella volta che Renzi fece cadere il governo Letta e tagliò corto in conferenza stampa per non sovrapporsi al Festival.

E d’altra parte anche la vittoria di “Soldi” di Mahmood è stata presa con notevole entusiasmo dall’area piddina/mondialista/indiesnob: oltre a essere l’unico pezzo in gara che sembrava inciso nel 2019, la cultura meticcia che ha generato la canzone sembrava chissà che schiaffo al sovranismo e/o il terreno comune da cui partire per sconfiggere la Lega. A noi piace pensare un mondo in cui uno vince a Sanremo per una manciata di voti e determina l’agenda politica del successivo quinquennio.

Una settimana dopo arriva l’annuncio di Morelli per arginare la deriva esterofila. Mahmood è italiano, ovviamente. Nato e cresciuto a Milano, madre sarda e padre egiziano che a un certo punto se n’è andato. Risponde a domande sulla sua italianità a ogni intervista. Quasi tutti cercano di tirarlo per la giacchetta e chiedergli di esprimersi in merito al clima xenofobo in cui si è trovato a diventare una popstar; lui si defila con pazienza da questi discorsi e passa oltre.

Il suo disco è il mio album dell’estate. Non è che sia chissà che rivoluzione musicale, ma ha dei pezzi clamorosi e quella foga di chi ha inciso un disco per dire delle cose. Voglio dire, meglio che Takagi & Ketra o “Ostia Lido”, ecco.

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