Quando per i concerti decenti bisognava andare a Bologna…

Studiavo a Forlì ed ero flippato col metal peso e l’hardcore.  Di Ravenna ascoltavo qualche gruppo (vi ricordate quel giro di gruppi lì? Miskatonic University, Brain Boozers, BHB, tutta quella roba). Di tanto in tanto andavo a un negozio di dischi sulla Ravegnana a comprare cose che non trovavo a Cesena, conoscevo il Rigolò e il Valtorto per qualcosa che vedemmo, e per il resto me ne stavo nel mio. Poi mi fidanzai con una ragazza di Ravenna e iniziai a frequentare la città, i fine settimana e qualche mercoledì; era il 1996. Non mi sono mai messo a scandagliare l’ultra-underground, ma la mia percezione della città in quegli anni era quella di un convento. Quattro o cinque posti in cui andare a bere, un concerto ogni morte di papa. C’erano i cinema, ok, e volendo anche qualche ristorante – anche se la scena hardcore dei ristoranti era indiscutibilmente dislocata nelle colline cesenati. Cazzo, odiavo Ravenna. Sembrava una bolgia dantesca per fighetti, la testa di ponte per introdurre in Romagna le più letali stronzate partorite dalla mente dei milanesi (due esempi? La rotonda e l’aperitivo. Ok, forse Milano Marittima era più colpevole di Ravenna in questa cosa). Passeggiavo per via Cavour e mi sembrava di stare dentro quegli horror distopici di sinistra fine anni ottanta, tipo Society: perché questa gente non beve? Dove vanno la sera? Iniziai a pensare che in una specifica zona della città tutti i giovani più pettinati si infilassero in qualche edificio e celebrassero con cadenza settimanale un rito satanico con sacrificio umano (nella mia immaginazione era da qualche parte verso via Giovanni Pascoli). Ma al di là delle paranoie, la città dormicchiava. A maggio o giugno aprivano i bagni al mare e la gente usciva completamente di testa. I primi giri a Marina mi han fatto sviluppare una teoria alternativa a quella dei sacrifici umani, con cui poi ho spiegato Ravenna ai miei contatti cesenati per una decina d’anni almeno. In sostanza, dicevo, il ravennate è un mammifero le cui abitudini sono abbastanza simili a quelle dell’orso bruno: si sveglia in tarda primavera e sbrocca. Inizia a celebrare la propria vita in riti orgiastici collettivi che si rinnovano ogni sera per tre mesi e passa, dopodiché – stremato dalle forze, piegato nello spirito e insoddisfatto per la scarsità di amplessi rimediati – si ritira nei propri alloggi e si dedica ad otto mesi di vita monastica. Peccato non ci fossero concerti: per vederti roba decente toccava salire a Bologna o anche più su. Croce e delizia dello snobismo rock.
La città è cambiata parecchio da allora. Con la fidanzatina ci lasciammo nell’estate del 2003, e nel biennio successivo Ravenna è sparita dalle mie mappe. Avevo 26 anni e non così tanto bisogno di tornare al giro del mio paese: iniziai a concepire un rinnovamento e qualche nuovo amico. Nella prima fase di neo-celibato, un periodo che tutti passano a cercare compulsivamente sesso occasionale e devasto scientifico, mi spostavo di città in città a caccia di concerti quanto più assurdi e di nicchia possibile. La Romagna, scoprii, era diventata una terra delle opportunità: il mio posto preferito era un casolare insteccato (insteccato è un termine romagnolo per descrivere un posto insteccato) nei colli forlivesi tra Meldola e la Fratta, si chiamava Area Sismica, e aveva questa programmazione mattissima a metà tra jazz, weird folk e roba contemporanea casuale. Le colline in quegli anni la facevano da padrona: c’era un locale a Diolaguardia dove suonavano gruppi garage, uno a Montereale che ospitava roba grossa del giro alt-rock italiano; un posto a Capocolle dove s’improvvisavano concertini e djset da ascolto, e i circoli Arci/Endas/CSI ospitavano incursioni di gruppi indie italiani e non. Sale prove convertiti in posti da concerto, casolari in campagna con eventi estemporanei, eccetera. Al Clandestino succedevano concerti di cui a Cesena non si sapeva niente fino all’ultimo giorno. Il modello era quello tipico del giro indie: c’è un promoter più o meno improvvisato, c’è un gruppo che vuole suonare dieci date in Italia e c’è qualcuno che vuole portare quindici ubriaconi nel suo bar. La Romagna ha tutti gli spazi che vuoi: balere in disuso, circoli in disuso, bar dello sport in disuso. A un certo punto Ravenna è tornata sulle mie mappe, in un modo piuttosto inaspettato: i miei amici hanno iniziato a considerare di andarci per vedere concerti. La fase dell’arcòr e del metal era sostanzialmente finita, ma un locale proprio in fondo alla E45 ha iniziato a buttar giù una programmazione di concerti che fino all’anno prima in Romagna non era manco pensabile. Si chiamava Bronson e stava a Madonna dell’Albero, in quella che aveva tutta l’aria di essere una ex-balera.
Dieci e passa anni dopo sono ancora qua. La stagione estiva della fotta ravennate è stata cancellata dalle ordinanze e dai bisogni di sicurezza, e la stagione invernale della clausura ravennate ha reagito alla Fine Della Fotta con un misurato entusiasmo e il popolarsi di posti fighi ove poter bere alcolici e guardare un concerto decente.
Personalmente, pur non avendo niente contro i concerti in spiaggia, trovo molto eccitante il momento in cui le stagioni invernali cominciano e i locali iniziano ad annunciare i primi concerti. Il Bronson e l’Area Sismica ne hanno già messi in cartellone di pazzeschi, e poi ci sarà una stagione di concerti al Moog, giusto? E poi ci sarà qualcosa di più piccolo e acustico al Fargo e magari qualche evento clamoroso al Clandestino, del Clandestino però ancora non so nulla. Ci sono i ragazzi alla rocca di Cesena, ci sono i circoli convertiti in qualcos’altro. Mi affido all’improvvisazione, e ormai di andare a vedere un concerto a Bologna non se ne parla neanche. Non è pazzesco vivere qua?

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