Cinque album di donne da non dimenticare

Forse è una mia impressione, forse ero solo distratto o forse da alcuni anni il livello del cantautorato al femminile, nella scena più o meno alternative mondiale, si è clamorosamente impennato. Tanto che per una sorta di effetto trascinamento l’ispirazione pare aver contagiato anche l’area più commerciale (penso all’ultimo, dignitoso, Lana Del Rey, per esempio, che poi di commerciale non ha proprio nulla) e tanto che agli amici a cui si vuole bene, di album al femminile usciti in questo 2015, se ne potrebbero consigliare almeno dieci. Qui mi limito a cinque segnalazioni che magari nel marasma in arrivo delle classifiche di fine anno potrebbero andare perse, chissà. L’anima più sbarazzina di tutti noi troverà soddisfazione nell’irresistibile debutto dell’australiana Courtney Barnett, forse il mio preferito tra quelli qui citati, nonostante sia anche il più scontato. Se per scontato, almeno, intendiamo il fatto che questa è una raccolta di canzoni chiaramente ispirate all’indie-rock chitarristico degli anni novanta americani, senza nessuna pretesa di sorprendere, ma con dalla sua una grande personalità (basta vedere anche qualche video sul tubo chitarra e voce) e melodie a presa rapida. Più sofisticate le proposte delle americane Julia Holter – che si è fatta cantautrice matura (ai confini con la musica colta e certo jazz) e non più solo sperimentale, trovando decisamente la sua strada in questo Have You In My Wilderness (quarto vero album a suo nome) – e di Natalie Prass, il cui album di debutto è decisamente coinvolgente, più pop (con accenni quasi soul) anche se più acerbo rispetto a quello della Holter. Si va verso territori più scuri e inquietanti con il “drone-metal-art-folk apocalittico” (in rete girano definizioni del genere, che sono poi piuttosto calzanti, per quanto divertenti) dell’Abyss di Chelsea Wolfe (una bella scoperta, almeno per chi come me non l’aveva presa troppo sul serio finora) mentre è il solito disco fuori dal tempo il nuovo, atteso, di Joanna Newsom, tra arpa, flauto, pianoforti, atmosfere freak-folk e naturalmente quella voce inconfondibile da prendere o lasciare (ad alcuni ricorda il classico verso del gatto a cui è stata schiacciata la coda, ne ho sentito parlare davvero in questi termini, e forse non del tutto a torto). Riascoltare un album della Newsom cinque anni dopo l’ultimo è un’emozione forte, almeno per chi ha la pazienza di entrare nel suo mondo. E credo non ci sia altro da aggiungere.

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