Il sottovalutato album di Bon Iver

Bon Iver Non ci troviamo davanti al classico caso del disco stroncato in toto dalla critica, ma si respira comunque un’aria piuttosto pesante attorno al nuovo Bon Iver, fin quasi snobbato in Italia, dove giusto un paio di anni fa avrebbe rappresentato invece il grande evento discografico dell’anno.

Oggi sembra quasi che se lo siano già dimenticati tutti, forse anche perché uscito in pieno agosto, in anticipo di qualche settimana rispetto alla data ufficiale. Certo, ci sono molte eccezioni naturalmente, in particolare all’estero (dove, tanto per rendere l’idea, nei vari aggregatori di recensioni ha una media voto circa dell’8, che lo piazzano, so che fa ridere ma è così, attorno alla posizione numero cento tra i dischi di questo 2019) ma c’è questa tendenza a criticarlo per non riuscire, si legge spesso, a essere né carne né pesce, per voler nascondere una presunta mancanza di ispirazione con effetti speciali. Della serie: «Va bene dai, bravino, ma torna a fare il folk senza troppe pretese che facevi all’inizio e per cui sei diventato famoso».

Sarà che è facile farsi convincere dalla stampa, almeno in questo settore, ma ci sono arrivato in copevole ritardo, sul nuovo Bon Iver, senza peraltro esserne mai stato fan, ma comunque molto incuriosito dalla svolta sperimentale del precedente 22, A Million e da questa nuova star della musica mondiale che cerca almeno un po’ di complicarsi le cose battendo sentieri in qualche modo, almeno per lui, inesplorati. Ed è stato quindi sorprendente scoprire che in realtà il nuovo album di Bon Iver chiude un cerchio in maniera fin quasi magistrale (pare che secondo l’autore rappresenti l’autunno, l’ultima delle quattro stagioni “musicate” in quattro dischi pubblicati nell’arco di dodici anni), il classico album della maturità che rappresenta un po’ la summa di tutta la sua arte, mettendo insieme il folk degli esordi, le canzoni, lo spirito sperimentale (mi pare davvero mai fine a se stesso, in questo caso, checché ne dicano), soprattutto l’anima incredibilmente soul di Justin Vernon (che in fondo stiamo parlando di lui quando parliamo dei Bon Iver, nonostante il plurale con cui vengono chiamati negli ultimi anni), i suoi falsetti, gli effetti e i rumori a movimentare un’atmosfera spesso eterea, tra archi, synth, chitarre acustiche e fiati.

Con alcuni pezzi che svettano sopra gli altri (“iMi”, “Holyfields”, “Hey, Ma”) e il resto che non è mai solo contorno.

 

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