Il nuovo Von Trier come una mostra d’arte contemporanea: film senza tempo e senza voto

Casa Jack Von TrierLa casa di Jack (Lars von Trier, 2019)
Siamo a cavallo tra gli anni sessanta e i settanta e Jack è un serial killer intellettuale. Uccide per necessità personale, ma lega ogni suo “incidente” (così vengono chiamati nel film) a una o più opere d’arte, nonchè alla costruzione ipotetica di una casa sua e del suo pensiero filosofico. Jack racconta e giustifica il tutto a Verge e ai suoi giudizi, un signore sconosciuto al quale il protagonista sembra affidare ogni sua singola azione, pensiero e le costruzioni ideologiche conseguenti.

Diviso in 5 capitoli che narrano 5 omicidi, chiamati come detto “incidenti”, mostrati in maniera molto diretta e forte, grazie a quel realismo da macchina da presa a mano che da sempre contraddistingue il maestro danese; le vittime sono caratterizzate molto bene e in maniera diversa, come ad esempio l’odiosa Uma Thurman del primo capitolo.
Il film poi completa ogni suo atto con una serie di pensieri non particolarmente semplici e connessi da parte del protagonista che partono da ciò che si è appena compiuto, passano per arte e filosofia, fino ad arrivare al più completo esistenzialismo.
Il sesto atto, finale, è chiamato “catabasi” ed è la summa e il compimento della poetica di Von Trier legata a questo lungo e complesso film di due ore e mezza, tagliato dai lungimiranti distributori italiani nella nostra versione (evviva), e rendendola ovviamente non degna dell’opera del regista.
Von Trier, credo e spero, lo conosciamo tutti: la sua opera è un fiume di pensieri girati con camera a mano, composta da scene bizzarre e da continui colpi di scena non necessariamente narrativi, sicuramente frutto della complessa e geniale mente del regista.

La casa di Jack non è un film di semplice intrattenimento, non è un horror sui serial killer, non è un’opera ad alta ricerca di realismo e non è neanche una tesi sul senso della vita e dell’esistenza stessa di ogni uomo.
O, probabilmente, è un pochino di tutto questo marchiato dalla pesante impronta del regista, che regala nel bene e nel male un film unico nel suo genere. Due ore e mezza sono tante e sicuramente troppe, le digressioni dialettiche si seguono a volte con fatica e rompono la tensione che si crea durante gli “incidenti” del film, che hanno davvero un sapore di paura e disgusto piuttosto marcati.
Ma Von Trier va oltre, e un po’ come Lynch nell’ultimo Twin Peaks sacrifica in qualche modo la linearità della trama per mostrarci un teatro degli orrori che vuole essere di fatto una mostra d’arte contemporanea, ci porta in un viaggio che porterà il suo protagonista oltre ogni più reale destinazione e che rimescolerà tutte le carte in gioco per costruire in noi e in lui un vero e proprio tempio di vita e di morte da consegnare alla storia della comunicazione visiva.

Un film fluviale, imperfetto, lungo, ostico e a tratti noioso, che non ha paura di parlare il suo linguaggio e comunicarlo senza alcun filtro. Difficile che un giovane o un non avvezzo a un certo cinema riesca ad appassionari a La casa di Jack, difficile che una mente abituata a riflettere davanti a uno schermo non tragga spunti per la propria carriera di “visionatore”.

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