Una magnifica (mini)serie Tv, se non fosse per quel finale…

 

The Undoing – Le verità non dette (di Susanne Bier, 2020)

Premessa: la recensione non contiene alcun spoiler, ma visto che devo lamentarmi del finale, capirete che a un certo punto della lettura, pur non rovinandovi alcunché, sia più opportuno fermarsi per poi proseguire soltanto dopo la visione.

La psicoterapeuta Grace e l’oncologo infantile Jonathan sono una coppia perfetta, perché pur non più giovanissimi sono belli, ricchi, felici grazie anche al loro figlio Henry, educato e intelligente, che frequenta un’esclusiva scuola privata. Una vita agiata e priva di preoccupazioni, fino a quando la coppia non viene coinvolta nelle indagini su un brutale omicidio ai danni della mamma di un compagno di Henry, che poco prima di essere uccisa aveva incontrato Grace a una serata di beneficienza.

The Undoing è una miniserie di 6 episodi diretta da una bravissima regista danese che di “affari di famiglia” (e non solo) se ne intende parecchio (da vedere il suo film Dopo il matrimonio), scritta da David E. Kelly (Big Little Lies e soprattutto marito di Michelle Pfeiffer), e interpretata da due icone degli anni novanta come Nicole Kidman e Hugh Grant, che tra lifting e rughe riescono ancora a essere magnetici come ai bei tempi; al loro fianco il mostro sacro Donald Sutherland e l’italiana emergente Matilda De Angelis, vista anche sull’Isola delle Rose e attesa pure sul palco del Festival di Sanremo.

Confezione perfetta, incipit impeccabile e tra scenografie eleganti, buona recitazione e abile tessitura della trama gialla, le cinque ore e mezza della serie tengono davvero incollati allo schermo, un po’ per l’alone di mistero legato all’identità dell’assassino, ma soprattutto per il crescendo di tensione che si crea sia dentro lo schermo, sia tra chi assiste empaticamente alla storia. Non è un whodunit tradizionale, cioè un giallo che ha come scopo primario la ricerca dell’assassino, perché pur lasciando lo spettatore in sospeso fino alla fine, sono piuttosto evidenti sia la ristrettissima cerchia dei sospettati, sia la crescente importanza dell’aspetto da legal thriller che la serie assume col passare dei minuti. E qui arriviamo alla premessa, perché all’alba dell’ultima mezz’ora scatta la sindrome di Alessandro Borghese, perché a visione completata anziché confermare il voto si tenderà a ribaltare la magnifica impressione avuta fin qui. E non è tanto per l’identità dell’assassino, quanto per la metamorfosi che il film assume subito dopo che i protagonisti “buoni” escono dal tribunale, dando un’inutile coda a un finale convincente, che avrebbe fornito la chiave di lettura lasciando allo spettatore il gusto di ripensare e di interiorizzare quanto successo fin lì e interpretarlo alla luce dei fatti. Ma si è scelto di andare avanti… Ecco, se riuscite a fermarvi in quell’istante, non ve ne pentirete.

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