Lanciare il cuore e la mente oltre le catastrofi

Serve una svolta culturale, rendere meno fragile un Paese ingentilito e antropizzato dagli antenati. Un bene comune la cui responsabilità è collettiva

A Norcia è la cittadina in quanto tale a rappresentare un capolavoro, con le case che si allineano e che vanno a costituire un insieme omogeneo

L’Italia rappresenta in tutti i suoi aspetti il Paese dove più si è sviluppata l’attenzione per la città storica e con punti di vista anche molto diversi. È sufficiente pensare a Saverio Muratori o a Roberto Gabetti, a Franco Albini o a Carlo Scarpa. O ancora al piano urbanistico di salvaguardia del Comune di Bologna approvato nel 1969 e gestito dall’assessore all’urbanistica Pier Luigi Cervellati che diventerà in pochi anni un’icona irrinunciabile per chiunque si occupasse di centri storici.
Non è dunque la conoscenza o la cultura a mancare. Quello che manca è la percezione di un tessuto di borghi e paesi che ha il suo valore non nel singolo concetto di centro storico, ma nella rete di riferimenti culturali, sociali, simbolici che li accomuna.
I recenti terremoti sono avvenuti proprio nel mezzo di alcuni processi ormai in corso da anni e paradossalmente potrebbero accelerarli. Da un lato, il rischio di abbandono, dall’altro le incognite legate alla “ricostruzione”, parola tra le più ambigue. Le tecniche che saranno utilizzate dovranno essere più sicure e allo stesso tempo più conservative dell’originale con il risultato che il valore degli edifici sarà destinato ad aumentare.
Esiste un’alternativa a questa salvaguardia attraverso l’arricchimento del valore del bene che si ricostruisce? Oppure esiste anche un diritto di cittadinanza che si può riaffermare in termini non assistenziali per comunità quasi senza economia?
Lo spostamento di quelle popolazioni appare quasi inevitabile conseguenza della sostituzione di valori che le città storiche hanno già vissuto con l’espulsione delle classi lavoratrici. Le catastrofi troppo spesso cambiano diritti, attori in scena, senza preannunciarlo, proprio come fanno le scosse sismiche.
Per ricostruire, va rimotivato quell’intreccio di saperi, professioni, artigiani, scienziati, restauratori, studiosi che sono stati tenuti ai margini della forma sociale non solo economica della civilizzazione contemporanea. Quel che ci aspetta è un profondo cambio di mentalità: e non è inutile ricordare come questo sia il più complesso e lungo cambiamento su cui si possa scommettere.
La progettazione prima di tutto, per far sì che con la ricostruzione non si disperda il valore storico, artistico e culturale dei nostri borghi millenari. É un rischio reale, al quale però dobbiamo rispondere con un no secco e deciso. Progettare è urgente. Il rigore strutturale non può bastare: occorre anche uno sforzo unitario affinché i comuni distrutti dal sisma tornino ad avere caratteristiche il più possibile analoghe a quelle del passato.
D’altronde si tratta della necessità più profonda che sta emergendo in queste ore anche dalle parole delle popolazioni terremotate. Un’esigenza che l’Italia – per le sue peculiarità storiche e culturali – non può permettersi di sottovalutare, questi territori rappresentano una parte vitale e imprescindibile del nostro Paese, con le sue tradizioni e le sue eccellenze amate in tutto il mondo. Si pensi all’altopiano di Castelluccio di Norcia con le sue celebri lenticchie che vengono vendute e mangiate ovunque. É giusto che gli agricoltori di quel territorio tornino ad avere il loro habitat originario, ovviamente con caratteristiche di sicurezza e di modernità adeguate.

Il pericolo, altrimenti, è che queste aree vengano abbandonate per sempre.

Per dirla più semplicemente bisogna elaborare un piano che non si sostanzi in un frettoloso sistema di otturazione dei buchi. Ciò che serve è un atteggiamento preveggente che rafforzi la capacità di resistenza al sistema nelle zone a più alto rischio e che garantisca, al tempo stesso, una ricostruzione che tenga conto del vissuto di questi territori.
A questo riguardo la cultura italiana ed europea si differenzia nettamente, ad esempio, da quella del Giappone dove i terremoti sono ancora più duri e ricorrenti che nel nostro Paese. Nel Sol Levante le case non sono considerate monumenti, ma formano un tessuto quasi provvisorio di costruzioni. Da qui la relativa serenità che vige quando si tratta di ricostruire, perché in tal senso – salvo alcune eccezioni – non si avverte la necessità di ricreare le condizioni e le caratteristiche del passato.
Un ragionamento valido per il Giappone ma inapplicabile a noi, uno degli aspetti più significativi della nostra cultura è rappresentato dal valore in sé che per noi rivestono i borghi e i paesi e, con loro, gli edifici che vi sorgono. Anche le case più umili, più povere – e non solo gli edifici monumentali – possono essere portatrici di una qualità artistica inarrivabile. Anzi in molti casi è proprio l’ambiente urbano l’elemento principale delle nostre città, ci sono paesi in cui la qualità complessiva dell’habitat è molto più importante della presenza di alcuni monumenti. Certo a Norcia ci sono la Castellina del Vignola e la Basilica di San Benedetto che purtroppo è crollata. Però è la cittadina in quanto tale a rappresentare un capolavoro, con le sue case che si allineano e che vanno a costituire un insieme omogeneo.
In Giappone, dunque, così come in altri Stati – da questo punto di vista – tutto è più facile perché basta ricostruire con rigore tecnico e strutturale. In Italia, invece, c’è qualcosa in più da considerare e rispettare, purtroppo e per fortuna abbiamo questa grande eredità da conservare: il senso del nostro Paese come opera d’arte, che ci impone una responsabilità aggiuntiva. Elemento che deve costituire la principale bussola di riferimento da seguire per procedere alla complessa fase della ricostruzione a cui è essenziale faccia riferimento anche la politica: Occorre una nuova sensibilità.
E se la politica dovesse dimostrarsene priva, bisogna allora che il mondo della cultura alzi compatto la sua voce. La politica e le istituzioni non potranno non ascoltare.
Come disse Sandro Pertini, dopo il terremoto in Irpinia: il miglior modo di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi. Aveva ragione, quindi difendiamoci. Non possiamo tollerare che crollino interi paesi e centinaia di persone restino sepolte sotto le macerie. Il terremoto è un mostro, ma possediamo le tecniche e le conoscenze per proteggerci. Deve entrare in modo permanente nelle nostre coscienze ancora prima che nelle leggi, abbiamo il dovere di rendere antisismici gli edifici in cui viviamo, così come è obbligatorio per un’automobile avere i freni che funzionano. Nessuno si metterebbe in viaggio con una macchina che non frena, invece tantissime famiglie vivono incoscientemente in zone sismiche in case insicure. C’è qualcosa che non torna.
Per far partire questo grande cantiere si comincia applicando la scienza della diagnosi, che è precisa, oggettiva, per l’appunto scientifica. Come un bravo medico fa la diagnosi prima di prescrivere una cura o consigliare un’operazione, la diagnosi consente anche nelle case d’intervenire solo dove è necessario. Più la diagnosi è puntuale e meno l’intervento è invasivo e costoso, oggi abbiamo tutti gli strumenti per farlo. Con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche. Ci vuole un cambiamento culturale che abbandoni l’oscurantismo dell’opinione, del “secondo me si fa così”, per abbracciare il mondo contemporaneo. Con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come un corpo vivente.
Il nostro è un Paese bellissimo ma fragile. La nostra bellezza è un valore profondo al quale troppi di noi si sono assuefatti e non la colgono più. In Italia la bellezza è così straordinariamente diffusa che è diventata assuefazione, la gente la vive con distrazione, senza accorgersene.
Ma il mondo ci guarda come eredi scriteriati e ha ragione perché la fenomenale bellezza dell’Italia storica non appartiene solo a noi, è un patrimonio dell’umanità. Siamo eredi indegni perché non lo proteggiamo a dovere. Serve una svolta culturale, abbiamo il dovere di rendere meno fragile la bellezza dell’Italia ingentilita e antropizzata dai nostri antenati. Un bene comune la cui responsabilità è collettiva.

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