In attesa dell’Angelus Novus di Walter Benjamin

Giorgio Guberti

Giulio Guberti (in primo piano), Graz (Austria), 1980

Maria Paola Patuelli e Massimo Casamenti raccontano
Giulio Guberti

«Uno dei compiti principali dell’arte  è sempre stato quello di creare esigenze
che al momento non è in grado di soddisfare»
Walter Benjamin, L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936

 

Alcuni volumi della collana “Artisti Contemporanei” (Ravenna, Edizioni Essegi, 1982 – 1985)

Nel 1977 la commissione comunale della Pinacoteca di Ravenna elegge Giulio Guberti responsabile per le attività espositive. Il progetto culturale di quest’ultimo è appoggiato, sostenuto e promosso dall’Assessora alla Cultura Maria Paola Patuelli: «donna colta, intelligente e informata sugli eventi della modernità», racconterà Guberti qualche anno dopo in un’intervista, «senza la [cui] volontà e […] determinazione» «non si sarebbe potuto fare nulla» (Giulio Guberti, Su “La Tradizione del Nuovo”: presupposti culturali e progetto, in R.A.M. Mostre di artisti ravennati, a cura dell’Associazione culturale Mirada, Ravenna, Giuda Edizioni, 2011). La prima mostra “Segno e identità: ipotesi-itinerario dentro la creatività femminile”, curata da Marisa Vescovo, espone le opere di una quarantina di artiste italiane e in concomitanza esce il primo numero della rivista “La Tradizione del Nuovo” edita dalla Pinacoteca Comunale di Ravenna. Dal dicembre del 1977 al maggio 1981 usciranno quindici numeri corrispondenti ad altrettante mostre collettive cui parteciperanno 243 artisti, a cura di venti critici (per approfondimenti in merito alla rivista e alle mostre corrispondenti consiglio la lettura della tesi di laurea al Dams di Rosetta Berardi, relatore il professore Pier Giovanni Castagnoli, presso l’Università di Bologna, nel 1991). Dal febbraio 1982 all’aprile 1988 la casa editrice Essegi, fondata da Massimo Casamenti con Danilo Montanari e Tiziano Fiorini, pubblica sempre per conto della Pinacoteca Comunale di Ravenna Artisti Contemporanei, una collana monografica curata, ancora una volta, da Giulio Guberti. Un’opera che rappresenta un’importante novità per l’editoria d’arte, proponendo un progetto editoriale che ha riguardato i più importanti artisti italiani viventi del dopoguerra, a cura di ventuno tra i maggiori critici italiani. L’esperienza artistica di Giulio Guberti ha avviato uno studio sui rapporti delle arti visive con le altre arti come testimonianza di un cambiamento in atto in Italia; di questo prestigioso progetto culturale se ne trova ampia testimonianza sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali dell’epoca.

Di seguito il primo fascicolo della rivista  “La Tradizione del Nuovo”, 1977

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«La mia opinione era che la cosiddetta provincia (che in realtà non era più tale) era in grado di poter dire qualcosa e che la sua voce doveva essere ascoltata in ambito nazionale»

G. Guberti, Su “La Tradizione del Nuovo”…, cit.

Sul quel periodo di vera e propria scoperta dell’arte contemporanea a Ravenna ho voluto chiedere due testimonianze a Maria Paola Patuelli, ex do­cente di filosofia e storia ed ex Assessora alla Cultura del Comune di Ravenna in quegli anni e a Massimo Casamenti, grafico, direttore creativo e socio fondatore con Tiziano Fiorini della Agenzia di comunicazione Image, ex socio della Cooperativa Supergruppo, ex docente dell’Albe Steiner e dell’Accademia di belle arti. Contributi importanti che informano su come, grazie alla direzione di Giulio Guberti, le attività espositive della Pinacoteca Comunale di Ravenna abbiano vissuto una stagione tra le più significative, producendo decine di mostre e portando a Ravenna il meglio dell’arte e della critica contemporanea degli anni tra il 1977 e il 1986. Confidando che l’attuale futuro incerto del Mar – Museo della città, non sia affidato alle sole “ginocchia di Giove”.

Maria Paola Patuelli

«Bello l’esergo di Benjamin. Che di esigenze non soddisfatte se ne intendeva molto. Vi ringrazio per darmi l’occasione di ripensare a importanti anni lontani. Lascio a Massimo Casamenti – date le sue competenze – il compito di mettere a fuoco aspetti riguardanti, nel merito, arte ed estetica. Vorrei – deformazione professionale – inserire la figura di Guberti nel contesto storico e politico nel quale ci siamo conosciuti, per poi arrivare alla nostra collaborazione, che non piovve casualmente dal cielo, ma fu il frutto di una specifica esperienza, in primo luogo politica. Le nostre frequentazioni ebbero inizio a metà degli anni Sessanta in un luogo politico di base, come si diceva un tempo. Nella Sezione comunista del centro storico di Ravenna “Mario Gordini”. La nostra Sezione era un luogo particolare, molto plurale. Era abitata non solo dalla classe operaia, poco numerosa nel centro storico, ma da esponenti del ceto medio e, in particolare, da intellettuali, come Giulio Guberti, Mario Salvagiani, Romano Biancoli, Piero Gambi, Carlo Bubani, Gino Gamberini, Lorenzo Pezzele. Senza dimenticare gli “eretici” Nino Carnoli e Elios Andreini, che introdussero temi radicali che annunciavano il Sessantotto. E un gruppo, nel quale mi trovavo, di giovani studenti, fra i quali Gianni Camerani e Ivan Simonini. Era una Sezione fertile di idee, proprio perché plurale e non priva di conflitti, che diedero però frutti politici importanti. Il Sessantotto con tutte le energie che riuscì ad attivare – culturali e civili, fra passioni e speranze – lasciò un segno profondo anche in questa Sezione di base, e nella nostra realtà ravennate, sicuramente “provinciale”, in senso lato, né più né meno di altre realtà. Però – un significativo però – in occasione delle elezioni amministrative della fine degli anni Sessanta, il Partito Comunista di Ravenna diede a questo gruppo di intellettuali il compito di produrre un documento programmatico sulla politica culturale da proporre per la Ravenna del futuro. È un documento di grande interesse, perché contiene molto di quello che fu poi realizzato dalla nuova giunta di sinistra dalla fine degli anni Sessanta in avanti, come, per esempio, la rivitalizzazione dell’Accademia di Belle Arti e della Pinacoteca. In primo luogo, fu istituito l’assessorato alla Cultura e allo Spettacolo – che prima non esisteva, e già questo dice molto – e fu affidato a una donna di grande valore, Giovanna Bosi Maramotti, una indipendente che solo in seguito aderì al Partito Comunista. Mario Salvagiani divenne il direttore del Teatro Alighieri. Anche la Biblioteca Classense fu investita da innovativi progetti, attivati da un nuovo direttore, Nevio Zorzetti, e – inaudito – furono avviate ogni estate, alla Rocca Brancaleone, importanti stagioni di jazz. Carlo Bubani, con il sostegno di Salvagiani e di Giovanna Bosi Maramotti, ne fu l’anima.

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La rivista “La Tradizione del Nuovo”, nn. 2-13, 1977-1981

Era il riverbero, anche nella nostra città, del clima di quella che Paul Ginsborg definisce la stagione della “grande azione collettiva”. Un clima che coniugava fiducia nella politica con Istituzioni governanti. Governare le città – Ravenna arrivava quasi ultima nella Regione Emilia Romagna – era per il Partito Comunista di allora la sua ragion d’essere. Un Partito riformista anche se mai – in quegli anni – si sarebbe definito tale. La nostra etica politica era – dirà poi Elinor Ostrom – Governing the commons. Chi meglio poteva farlo, pensavamo, se non noi comunisti? A proposito di commons. Questo era lo spirito degli ultimi anni Sessanta e primi Settanta, a Ravenna e non solo. Nulla di idilliaco, naturalmente. La quotidianità era dura, spesso conflittuale, le imperfezioni umane e politiche numerose. Ma l’aria che si respirava era quella. Quasi materia, oggi, per una indagine di archeopolitica. Indagine per specialisti, che la gioventù di oggi potrebbe comprendere solo sine ira et studio. Se rileggete i nomi degli intellettuali della mia Sezione, vedrete che molti di loro hanno avuto compiti importanti – culturali, politici, amministrativi – negli anni Settanta e Ottanta. E, altro aspetto alquanto inconsueto, il Pci ravennate mi candidò alle elezioni amministrative del 1969. Ero veramente molto giovane, da poco arrivata agli studi universitari, ma avevo dalla mia l’esperienza sessantottina, che il Partito giudicò essere significativa e degna di essere rappresentata. Ero quindi in Consiglio Comunale da sei anni – nel frattempo, la laurea e i primi anni di insegnante – quando sostituii nell’Assessorato Giovanna Bosi Maramotti, eletta in Parlamento con le elezioni politiche del 1976. La realtà culturale ravennate era già stata rianimata. Uso questo termine con prudenza, ma in spirito di verità. Nelle precedenti amministrazioni, la cultura era il fanalino di coda, la Cenerentola nelle poste del bilancio comunale. Qualche fiore all’occhiello qua e là. Poco altro. Giovanna lavorò molto e bene. Continuai per quella strada, con una caparbia convinzione, che il mio ambiente familiare mi aveva trasmesso. La cultura non è un lusso, è una necessità. Non c’è democrazia senza cultura. E non c’è cultura laddove c’è estraneità rispetto al contemporaneo. Inoltre, non ero una politica di professione e dovevo/volevo conciliare il mio lavoro di insegnante con l’impegno amministrativo. Non lasciai la scuola, feci il doppio lavoro. Fu una scelta politica, prima ancora che esistenziale. Furono anni molto faticosi, ma ben vissuti. Quindi, se la cultura non è un lusso, le poste di bilancio delle Istituzioni culturali andavano arricchite. E così fu, anno dopo anno. Inoltre, alcune pratiche a mio avviso positive, che venivano da una lontana tradizione, andavano estese, ed esperienze nuove andavano introdotte. Esisteva, storicamente, una Commissione teatrale, eletta dal Consiglio Comunale in rappresentanza dei vari gruppi consiliari – i palchettisti autonomamente indicavano un loro rappresentante – che svolgeva molto bene il lavoro di programmazione, affiancando il direttore del Teatro. Esisteva una Commissione per la Biblioteca Classense, con analoga funzione. La Pinacoteca Comunale no. Era, di fatto, un’appendice dell’Accademia di Belle Arti. Pensai che meritava una propria specifica autonomia e, non a caso, chiesi aiuto a Giulio Guberti, che era un medico con una eccellente cultura artistica, cosa non inusuale fra i medici, spesso di solida cultura umanistica. Nel giro di pochi mesi definimmo lo Statuto della Commissione per le Arti Visive.
Cultura E Testimonianze  Guberti (secondo da sinistra), Ravenna, in piazza del Popolo negli anni ’80

La Commissione, con rappresentanti eletti dal Consiglio Comunale – anche Antonio Rocchi, importante artista ravennate, ne fece parte – suddivise i compiti al proprio interno: didattica, conservazione, arti visive. Giulio divenne il responsabile per le attività espositive. A lui il compito di proporci, ogni anno, il programma, che poi andava approvato – fu sempre approvato solo dalla maggioranza, mai dall’opposizione – dal Consiglio Comunale. Con un bilancio molto contenuto, ma prima inesistente. Fu così che arrivò a Ravenna l’arte contemporanea. Con un certo sconcerto, che non nascondo, sia nella Giunta Municipale, che in Consiglio Comunale. La stampa locale fu quasi sempre molto severa. In una occasione, ci furono indignate interpellanze da parte dell’opposizione. In una mostra – non ricordo quale – era esposta una immagine fotografica considerata pornografica. Si creò in città una dinamica interessante. Un gruppo di intellettuali fece un manifesto, sottoscritto con nomi e cognomi, in cui si diceva “Ravennati, ancora uno sforzo!”. Vado a memoria, e spero di non sbagliare. La cosa ebbe risonanza fuori Ravenna e una televisione nazionale mi intervistò. Trovai il tutto divertente e pieno di ossigeno. In ogni caso, lo spirito del tempo consentì che l’esperienza continuasse. I Sindaci con cui ho lavorato, Canosani e Angelini, sorridevano, a volte dubbiosi, ma sempre presenti alle inaugurazioni delle mostre, e ci sostenevano. D’altra parte, il ruolo che le Commissioni delle Istituzioni culturali svolgevano era garanzia di pluralismo, di confronto e quasi sempre di condivisione. I Partiti responsabilizzavano – nelle Commissioni – intellettuali ed esperti di loro fiducia e mai, allora, avremmo pensato che questa era “spartizione partitica”. Una certa fiducia nella politica e nelle Istituzioni – anche se spesso critica – c’era. Erano gli anni della crescita della cultura in varie città d’Italia, non solo nelle città “capitali” e, per fortuna, anche Ravenna si collocò in questa nuova tendenza. Fu in quegli anni che si mise a punto un grande progetto poliennale di recupero del complesso Classense, che oggi vediamo pressoché concluso. Credo – certa di non essere smentita – che il luogo più europeo di Ravenna sia la Biblioteca Classense, una delle migliori biblioteche, non solo italiane, esito del lavoro di Donatino Domini – e di Claudia Giuliani – nei decenni successivi, che con ostinata determinazione non ha lasciato intenzioni e progetti sulla carta. Dico questo senza nulla togliere – naturalmente – alla grande importanza di Ravenna Festival. Inoltre, Ravenna fu definita, in quel periodo, città-teatro. Infatti, nel giro di pochi anni passammo da uno o due turni a dieci turni di abbonamento per gli spettacoli di prosa. Oltre al jazz, aprimmo la Rocca Brancaleone all’opera lirica e al balletto. Pensai che, allora, ci volesse anche una politica per il cinema. D’estate, alla Rocca, e, d’inverno, in convenzione con alcune sale cinematografiche della città. Anche in questo caso istituimmo la Commissione Cinema e adeguammo in tal senso – come per le altre Istituzioni culturali – la pianta organica del personale. Pietro Mieti, un “grande” assessore al bilancio, mi diceva di non esagerare. Ma, alla fine, mi sosteneva. In questo quadro, un punto molto avanzato di contatto con l’arte “in corso d’opera” fu proprio il lavoro svolto da Guberti con le attività espositive. Ci portò un mondo nuovo in casa, con poca spesa. Ben poca, rispetto ai bilanci delle altre Istituzioni culturali, e di questo Giulio spesso si lamentava. Cercavo di contenere i suoi amichevoli – con me – furori. “Giulio, stiamo facendo un lavoro in salita, l’importante è non fermarsi”, gli dicevo. In quel tempo così intensamente condiviso, da Giulio ho imparato molto. Andavo da sempre alla Biennale di Venezia, ma da allora andai con maggiore consapevolezza. Imparai da Giulio come il politically correct debba darsi dei limiti, e come, quando ci vuole, si debba parlare forte e chiaro. Lui mi insegnava la radicalità delle posizioni, io gli trasmettevo – che fatica! – un po’ di pazienza. Certo, abbiamo lavorato molto e duramente. Ma siamo stati aiutati dallo spirito del tempo. Basti pensare che Giulio, omaggio alla sua assessora donna, volle inaugurare il ciclo de La tradizione del Nuovo con la mostra Segno/identità. Ipotesi itinerario dentro la creatività e il segno femminile, a cura di Marisa Vescovo. Fu il mio primo contatto con il femminismo. In quel tempo ero ancora attardata in un eman­cipazionismo poco consapevole della mia differenza di genere. E questo lo debbo a un uomo, Giulio Guberti, anche lui, per molte ragioni, un “diverso”. La sua diversità la apprezzai anche quando “creò” il secondo ciclo espositivo, Artisti contemporanei. Nel ciclo precedente, erano i curatori che sceglievano gli artisti. Ora, disse Giulio, è ora di capovolgere. Noi scegliamo gli artisti, ai quali chiediamo di scegliere il critico curatore. Fu una grande esperienza, un innovativo laboratorio che intrecciava arte e critica. Ricordo ancora l’entusiasmo con cui Argan, in quel momento sindaco di Roma, visitò la mostra dedicata a Mario Schifano. Eravamo veramente in un’altra storia, in un altro mondo. Ma ogni storia è una storia, con un inizio e una fine. Mutamenti in meglio, mutamenti in peggio. Dipende. Dagli anni Ottanta, in Italia – e quindi anche a Ravenna – comincia un’altra storia. A mio avviso, cominciò a incrinarsi la cultura dei commons. Per questa ragione non accettai più incarichi nella Giunta comunale. E qui non mi dilungo. L’arte contemporanea vista da noi a Ravenna in quegli anni ha segnato poco, credo, l’immaginario della cittadinanza ravennate ampiamente intesa. Se non in piccoli ambiti, non per questo poco importanti. Ma è da questa esperienza che l’arte ha trovato, a Ravenna, piena cittadinanza, anche se in altre forme. In ogni caso, in quegli anni si fece strada – questo sì – l’idea che la cultura non è un ornamento ma è necessaria. E oggi – nel 2017 – quale cultura è ritenuta necessaria? Con quali priorità? Sarebbe bello che intellettuali ravennati e cittadinanza si autoconvocassero per discuterne insieme. Partecipazione, confronto, conflitto, democrazia. Ma questa è – forse – la innocua fantasia di “una ragazza del secolo scorso”».

Massimo Casamenti

«Intanto comincerei con il parlare di Giulio, perché non se ne è parlato abbastanza. Giulio è stato un intellettuale libero che ha realizzato dei progetti importanti, nei quali ha creduto senza accettare condizionamenti di alcun tipo. Medico e socio fondatore della “Domus Nova”, era persona economicamente benestante, situazione che gli ha permesso una totale libertà intellettuale nell’esercizio dell’attività svolta come critico d’arte. Questo suo agire libero è stato possibile anche grazie al sostegno ricevuto da Paola Patuelli a quei tempi Assessora alla Cultura del Comune di Ravenna. Paola è stata l’interfaccia della Pubblica Amministrazione che gli ha permesso di portare avanti il suo progetto in autonomia.

Cultura E Testimonianzejpg06 Giulio Guberti (primo da sinistra), Massimo Casamenti, Terry Fox,  alla Galleria Pellegrino, Bologna, 1987, foto Enzo Pezzi

Percorso che praticamente si interromperà con la fine del mandato della Patuelli. Con la nuova gestione non si rinnovò il feeling fiduciario con Giulio, il quale non accettò di portare avanti la collaborazione con la Pinacoteca. Riguardo al contenuto del suo programma culturale, Giulio era convinto che fosse in atto un fenomeno di contaminazione reciproco tra le arti intese come discipline; nelle varie mostre furono indagati i rapporti delle arti visive con la poesia, il teatro, il cinema, la fotografia, l’architettura, i nuovi media. Il progetto La Tradizione del Nuovo (editore Pinacoteca di Ravenna, curatore Giulio Guberti, in redazione Fulvio Fiorentini, Enzo Pezzi, Danilo Montanari e il sottoscritto, componenti della Cooperativa Supergruppo) ha voluto dimostrare che l’arte non poteva più essere letta secondo le regole canoniche o le caratteristiche stilistiche dell’artista e come tutte le arti, in qualche modo, “tendessero alla performance”; a supporto di questo, Giulio era orgoglioso di aver portato a Ravenna artisti non solo legati alle arti visive ma con caratteristiche di trasversalità. Va detto inoltre che la rivista «La Tradizione del Nuovo», oltre a svolgere la funzione di catalogo per le mostre in corso, affrontava tematiche di carattere non solo locale. Lo testimonia il fatto che l’attività svolta in quegli anni dalla Pinacoteca di Ravenna, oltre ad avviare un processo di arricchimento cittadino, come del resto testimoniato anche da Renato Barilli, ricevette importanti riconoscimenti su prestigiose testate giornalistiche in campo nazionale. Giulio chiese inoltre agli artisti di lasciare una loro opera a un “prezzo politico” e, se il museo cittadino venne arricchito con opere di artisti contemporanei tra i maggiori in ambito nazionale (ahimè, attualmente in magazzino), lo dobbiamo a lui. Come Giulio ha scritto: «Se Ravenna è diventata sul piano culturale una “ex-provincia”, molto lo si deve all’attività di quel periodo della Pinacoteca. Tutto ciò, credo poterlo dire con legittimo orgoglio e nel rispetto della verità» (Agenzia Image Ravenna, Image 20/30 1976/2006, 2007 Ravenna).Dopo le quindici mostre collettive, per approfondire ulteriormente le forme e i contenuti dell’arte contemporanea italiana, nacque la collana Artisti Contemporanei, 16 volumi editi dalla Essegi di Ravenna che accompagnavano altrettante mostre personali della Pinacoteca e a cui collaborarono ventun critici. L’invenzione, in questo caso, fu di far leggere autori più o meno affermati a critici giovani; ad esempio l’opera di Giulio Turcato venne interpretata dall’allora giovane critico Flaminio Gualdoni e l’opera di Mario Schifano da un altrettanto giovanissimo Marco Meneguzzo. Giulio coinvolse soprattutto artisti importanti del panorama italiano, in particolare quelli che sperimentavano l’arte povera, mi riferisco in particolare agli artisti della cosiddetta “scuola di Torino”(Zorio, Paolini, Merz). La caratteristica preponderante e inedita di Artisti contemporanei è proprio l’aspetto della lettura critica fatta spesso da un giovane critico. Ogni volume pubblicato è tripartito e, significativamente, la terza parte contiene una documentazione bio-bibliografica con notizie, scritti, immagini, materiali anche inediti, che consentono di approfondire la dimensione intellettuale dell’artista ed il suo pensiero. Fu un lavoro straordinario da un punto di vista della lettura critica (o ri-lettura) di autori importanti e il risultato non fu la pubblicazione di semplici cataloghi. La collana rappresenta ancora un punto di riferimento significativo per tutti gli autori coinvolti, proprio per la ricchezza di materiali contenuti al loro interno. Che il lavoro di Giulio abbia creato reputazione lo dimostra il fatto che, fino agli anni ’70, Ravenna non era presente nelle “mappe” di attività espositive legate alle arti visive e gli va riconosciuto il merito di aver fatto sì che la Pinacoteca della città diventasse una sede tuttora appetibile per eventi artistici di rilievo nazionale».

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