I Curdi non possiedono che il vento

Approfondimenti sul dramma di un popolo con la testimonianza degli attivisti ravennati Raffaele Veridiani e Luca Dubbini

«Sono l’aquila che vive sulle vette dall’alto osservo i pascoli. Senza famiglia, senza casa e terra come sudario avrò le mie ali soltanto. Tutto quel che io desidero è di avere accanto un volto splendente come il tulipano. Se alle montagne narrassi il mio soffrire sui pendii non crescerebbero più i fiori. È addolorato il mio cuore, Signore, soffre e trema d’angoscia anela alla patria, piange l’esilio. E questo fuoco mi brucia»
Baba Tahir, sec. X

Carta con l’indicazione del perimetro del territorio curdo suddiviso tra Turchia, Iran, Iraq e Siria

Per Kurdistan s’intende una regione vasta circa 450.000 kmq, abitata dalla popolazione di etnia curda, ma divisa tra Turchia, Iraq, Siria e Iran. La maggior parte del Kurdistan è situata all’interno dei confini turchi per un’area di circa 230.000 kmq (30% del suolo turco). È un territorio strategicamente rilevante per la ricchezza di petrolio e le risorse idriche. Il 75% del petrolio iracheno proviene dal Kurdistan, gli unici giacimenti della Turchia e i più importanti della Siria si trovano in Kurdistan e anche nella zona di Kermanshah, territorio iraniano ma abitato da curdi, si produce petrolio. La posizione geopolitica dell’area ha condizionato e condiziona le vicissitudini delle comunità che ci vivono; è il passaggio obbligato di alcune importanti vie di comunicazione e si trova nel cuore di uno dei punti più caldi della politica mondiale. Il popolo curdo discende dagli antichi medi, una popolazione di origine indo-iraniana, che dall’Asia Centrale si diresse, probabilmente intorno al 614 a.C., verso i monti dell’Iran (le tradizioni locali si spingono anche più indietro nel tempo). Le limitazioni, imposte dall’impero ottomano all’inizio del XIX ai privilegi e all’autonomia degli stati curdi, provocarono numerose rivolte che avevano come obiettivo l’unificazione del popolo curdo e la sua autonomia. Con la Prima guerra mondiale, che decretò la fine dei grandi imperi, sembrava possibile la nascita di uno stato curdo. Il trattato di Sèvres, firmato il 10 agosto 1920, prevedeva che nell’Anatolia orientale sarebbero stati creati un Kurdistan autonomo, oltre che uno stato indipendente di Armenia. L’ostracismo della nascente Repubblica turca ne impedì la formazione. Il trattato di Losanna, firmato nel 1923 da Gran Bretagna, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Romania cancellò il trattato di Sèvres e i territori abitati dalla popolazione di etnia curda vennero spartiti tra Turchia, Siria, Iran e Iraq. Così, dal 1921 al 1925, venticinque milioni di curdi furono dispersi tra queste nazioni trasformandosi in minoranze. Gli anni successivi saranno segnati da questa divisione e i curdi dovranno affrontare trasferimenti forzati, politiche di arabizzazione, genocidi e perdita dei diritti umani più elementari. Un totale fallimento, quindi, anche da parte del sistema internazionale nel risolvere questo problema, e nel riconoscere ciò che si stava e si sta compiendo contro questo popolo. Assistiamo in questi giorni alla resistenza dei curdi siriani nella regione settentrionale del Rojava, al confine con la Turchia, che, dopo una prima fase di neutralità nel conflitto, in seguito alla minaccia del Fronte Al-Nusra affiliato ad al-Qāʿida e allo Stato Islamico, si è costituita in Unità di Protezione del Popolo (YPG-Yekîneyên Parastina Gel-milizia della regione a maggioranza curda nel nord della Siria) nella città di Kobânê. Delle YPG fanno parte circa diecimila donne, che contribuiscono per più di un terzo all’organico. A seguito dell’esplosione dell’autobus-bomba, avvenuta il 17 febbraio ad Ankara, in una zona vicina al parlamento e al quartier generale dell’esercito, il governo turco ha intensificato i bombardamenti nel Rojava, e ha ritenuto responsabili dell’attentato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk-Partîya Karkerén Kurdîstan), che da decenni combatte per ottenere l’autonomia dei curdi in Turchia ed è considerato illegale dal governo turco, e i combattenti curdi siriani dell’Unità di protezione del popolo-Ypg (http://m.asianews.it/notizie-it/Dopo-l’attentato,-Ankara-intensifica-i-bombardamenti-contro-i-curdi-in-Siria-36730.html).  L’Ypg, appoggiato dagli Stati Uniti nella lotta contro lo Stato Islamico in Siria, è il braccio armato del Partito dell’unione democratica (Pyd-Partiya Yekîtiya Demokrat), una formazione per l’autonomia curda fondata nel 2003 nel nord della Siria e a sua volta affiliata al Pkk.

Alcune immagini della città curda di Cizîr-Cizre (Turchia), foto di Luca Dubbini. A destra un giovane combattente curdo, catena montuosa di Qandil, Iraq, agosto 2007, foto di Julien Goldstein/Reportage by Getty Images

In un’intervista a cura di Gianni Sartori del 16 febbraio 2016 con l’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia alla Rete Kurdistan Italia si legge che Europa e Stati Uniti hanno avuto e continuano ad avere un atteggiamento non lineare nei loro confronti; i curdi sono eroi, nel nome della civiltà, quando difendono Kobânê e sconfiggono l’Isis, sono invece sospettati di terrorismo quando chiedono al governo turco il rispetto dei loro diritti. La lotta per creare una comunità libera, equa, egualitaria ed ecologica nel Rojava, di fatto è però la stessa lotta delle popolazioni nelle città del Bakur (Kurdistan sottoposto ad amministrazione turca). La differenza sta solo nel fatto che questa lotta nel Bakur si scontra con i piani del governo turco. I governi di Stati Uniti ed Europa sembrano però avere la loro convenienza nel mascherare il carattere autoritario e antidemocratico del governo di Erdogan che opprime allo stesso modo i curdi come i turchi che desiderano una nazione libera e rispettosa di diritti fondamentali. Il governo di Ankara si sente in pericolo per il fatto che le popolazioni delle città curde, quasi ovunque insieme ai rappresentanti delle istituzioni comunali eletti nell’HDP-Partiya Demokratik a Gelan-Il Partito Democratico del Popolo, stanno sperimentando politiche di autogoverno, e cercano di sviluppare forme democratiche, assembleari e libere di partecipazione per decidere sull’amministrazione del loro territorio. Il Confederalismo Democratico è diventato la pratica quotidiana di milioni di donne e di uomini che intendono mostrare, alla Turchia e all’intera comunità internazionale come sia possibile un diverso modo di vivere e governare rispetto a un governo accentratore, autoritario, violento e corrotto quale quello turco. Contro quest’alternativa il governo ha però scatenato una guerra vera e propria, schierando l’esercito contro i civili, decretando il coprifuoco e bombardando le case. Nel Rojava, il Confederalismo Democratico avviato dai curdi investe tutti gli aspetti della società: dall’economia, attraverso una riorganizzazione e ridistribuzione della produzione e dei beni secondo i bisogni delle comunità e delle persone, alla politica, con il trasferimento di sempre più ampi poteri alle assemblee popolari di villaggio e di quartiere e con sistemi di deleghe controllate dalla base per le decisioni che interessano ambiti più ampi; dal rapporto tra generi, con la promozione di una straordinaria e fondamentale partecipazione delle donne e una lotta senza quartiere al maschilismo e al patriarcato, all’ecologia, con la costruzione di un diverso rapporto tra uomo e natura, più autentico e rispettoso, nessun aspetto della vita è escluso. Realizzare tutto questo in un’area dove al contrario tutt’attorno prevalgono le ingiustizie sociali, l’intolleranza religiosa, l’autoritarismo politico, il maschilismo, il sessismo e il disprezzo per la natura non è però facile. Gli stati dell’area mediorientale, Turchia, monarchia Saudita e Iran aspirano ad assumere ruoli di potenze-guida. L’Arabia Saudita ha avuto nell’identità religiosa sunnita un suo collante e punto di forza; più recentemente anche la Turchia, portata da Erdogan lontano dal laicismo kemalista, sfrutta l’identità religiosa sunnita come un mezzo di rafforzamento dell’idea di nazione. Inevitabile la contrapposizione con la potenza sciita, l’Iran. Lo scontro oggi si è concentrato in Siria, dove la presenza sciita, spesso alleata con la corrente alewita della quale fa parte il clan di Assad, è da sempre forte. L’Isis rappresenta sul campo l’alternativa sunnita, nella forma più estrema. Le due fazioni raccolgono simpatie e appoggi dalle grandi potenze, interessate, ovviamente, a mettere le mani, anche se per mezzo dei loro alleati, sulle risorse petrolifere e idriche siriane. Lo scontro delle bande armate dell’Isis si è scatenato contro tutti coloro che chiedono libertà e democrazia, siano essi cristiani, mussulmani, ezidi, assiri o di qualunque altra religione, fede o credo politico (http://www.retekurdistan.it/2016/02/intervista-con-lufficio-di-informazione-del-kurdistan-in-italia/).

“Cimitero dei martiri” curdi nella rivoluzione di Kobânê a Pirsûs-Suruç, foto di Luca Dubbini

In Italia la solidarietà verso il Popolo curdo è stata sempre particolarmente attiva. Lo dimostrano le iniziative delle tante realtà associative, culturali e anche istituzionali che si sono sviluppate in tutto il territorio nazionale. In ogni città si sono costituiti comitati di solidarietà e nodi territoriali della Rete Italiana di Solidarietà con il Popolo Curdo. Le città di Palermo e Napoli hanno conferito la cittadinanza onoraria ad Abdullah Oçalan (a breve la conferirà anche Reggio Emilia), e molte amministrazioni locali hanno stretto patti di solidarietà con l’amministrazione autonoma del Rojava. Anche a livello accademico si sono svolte e sono in preparazione importanti iniziative di approfondimento e divulgazione del sistema del Confederalismo democratico come nuovo modello per una vita libera e democratica, così come molte organizzazioni di donne e femministe si sono avvicinate al tema della jineologia, una nuova scienza delle donne (in curdo Jin significa donna) che smonta il concetto dell’homo œconomicus come attore dominante delle relazioni sociali (https://carovanaperilrojava.noblogs.org/post/category/report-rojava/).

Circa un anno fa, Yilmaz Orkan, rifugiato politico a Roma, responsabile dell’Uiki – l’ufficio informazioni del Kurdistan in Italia – e membro del Congresso nazionale curdo che ha sede a Bruxelles, in un suo intervento al Festival delle culture di Ravenna, aveva parlato dell’autogoverno del Rojava, costituitosi il 19 luglio del 2012 e nato sulla scia di quella che Oçalan ha definito la “terza via”, soffermandosi sull’importanza di organizzare l’economia tenendo alla larga le multinazionali e puntando sulle energie rinnovabili. L’interlocutore curdo parlò della netta opposizione delle comunità locali al nucleare e alle dighe di Ankara per una difesa dell’ambiente. «Quello che cerchiamo è un riconoscimento internazionale», ha affermato, ma ogni tentativo di rappresentanza politica dei curdi si scontra con la repressione di Ankara che non risparmia nemmeno i parlamentari. È notizia di questi giorni l’abolizione dell’immunità parlamentare per i deputati sotto inchiesta. Il provvedimento va letto in chiave perlopiù anti-curda, in quanto 50 su 59 parlamentari curdi sono indagati poiché colpevoli di aver difeso il loro popolo dagli attacchi dell’esercito regolare turco. Kobânê è ormai un simbolo, il Rojava la prova che esiste un antidoto ai nazionalismi e alla settarizzazione dell’area, le richieste di Yilmaz sono un banco di prova per un internazionalismo che provi a essere efficace.
Raffaella Veridiani e Luca Dubbini, attivisti ravennati per i diritti umani e civili in Medioriente, iscritti alla Rete italiana di solidarietà con il popolo curdo sono recentemente tornati da un viaggio a Amed-Diyarbakir, città del sudest della Turchia, situata lungo le sponde del fiume Tigri; li incontro, e riporto di seguito un riassunto dei loro racconti.

Nel settembre del 2015, Raffaella e Luca partono con la delegazione italiana di attivisti, all’interno di una Carovana Internazionale, per la loro prima spedizione. Sono diretti a Kobânê, a nord della Siria, città situata nei pressi della frontiera con la Turchia. Visitano il centro culturale Amara di Pirsûs-Suruç. La città è a maggioranza curda e si trova su territorio turco a ridosso del confine con la Siria; funge da base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobânê da cui dista pochi chilometri. A Pirsûs-Suruç, nel luglio del 2015, era avvenuto il massacro di trentatré giovani turchi e curdi che si erano recati al confine per impegnarsi come volontari nella ricostruzione di Kobânê. In Italia le diverse realtà hanno avviato la costruzione della scuola “Antonio Gramsci”, la costruzione di una Casa delle donne intitolata alle donne martiri che hanno liberato Kobânê (un centro di sviluppo di tutte le arti), la creazione di sei aree ludico-sportive all’aperto per i giovani curdi di Pirsûs-Suruç tramite il progetto Rojava Playground. Raffaella e Luca visitano tre campi con profughi di Kobânê che gli raccontano di razzie di bambini da parte di militari turchi lì avvenuti; i minori potrebbero essere finiti nelle mani di organizzazioni criminali che si occupano di traffico di essere umani per il prelievo di organi, per le adozioni illegali, per la manovalanza Isis.

I campi sono autogestiti dai profughi e sostenuti dalla municipalità di Pirsûs-Suruç. Sono 220.000 le persone fuggite da Kobânê; di questi, 68.000 sono stati ospitati solo a Pirsûs-Suruç. Il 15 settembre 2015 la Carovana internazionale sarà costretta a convocare una conferenza stampa, per denunciare il rifiuto da parte delle autorità turche a concedere l’ingresso a Kobânê per la consegna di un carico di farmaci. Nel mese di marzo di quest’anno Raffaella e Luca partono una seconda volta diretti ad Amed-Diyarbakir, città del sudest della Turchia capoluogo della provincia omonima, una delle città turche con la maggior presenza di curdi, e per questo ritenuta dai curdi stessi e da alcuni osservatori esterni la capitale del Kurdistan turco. Alla Carovana Internazionale partecipano 170 persone provenienti da dieci nazioni diverse che si recano ad Amed-Diyarbakir per festeggiare il Nawruz, il capodanno curdo che coincide con l’equinozio di primavera e che viene celebrato come l’annuncio del risveglio comune della natura e della società. Per il popolo curdo il Newroz è anche il simbolo della lotta contro la tirannia per la libertà. Il governo turco ha vietato le celebrazioni del Newroz in tutto il paese ad eccezione di quelle ad Amed-Diyarbakir; le celebrazioni si svolgono il 21 marzo tra imponenti misure di sicurezza ed è solo grazie alla presenza della Carovana, che svolge anche una funzione di Osservatorio internazionale, che non vengono perpetuate ulteriori violenze ai danni della popolazione. Mi racconta Raffaella che durante i controlli per entrare al Newroz i militari del secondo checkpoint hanno cominciato a togliere loro, di forza, le kefiah (copricapi tradizionali della cultura araba e mediorientale) e lei ha iniziato a filmare quello che succedeva; è stata immediatamente presa e caricata e trattenuta dalle forze speciali su un blindato con urla da parte dei militari.

Due ore che le fanno capire cosa significa per la popolazione vivere quotidianamente questo tipo di violenza inaudita.

Finiti i festeggiamenti, decidono di fare un giro per la città ma si accorgono di essere seguiti da un SUV (Sport Utility Vehicle) con i vetri oscurati, e decidono quindi di rientrare in albergo. Gli accompagnatori gli diranno poi che i SUV neri che fanno le ronde nelle città appartengono ai cosiddetti Battaglioni della morte, gruppi che hanno ricevuto pieni poteri dal governo turco e che attraversano senza nessun controllo i checkpoint. A causa loro, sono probabilmente già sparite circa quindicimila persone ad Amed-Diyarbakir. Si tratta di arabi provenienti dall’Arabia Saudita in appoggio al governo turco per questioni antiterroristiche e per svolgere il lavoro sporco. Il 22 marzo a Cizîr-Cizre, città della Turchia della provincia di Şırnak, nota in antichità come Bāzabdā o Jazirat Ibn ‘Umar, semidistrutta dalle operazioni militari, dove hanno perso la vita centinaia di persone, si sarebbero dovute svolgere le celebrazioni conclusive, ma vengono impedite. Deputati, giornalisti nazionali e internazionali diretti a Cizîr-Cizre vengono fermati dall’esercito a circa 40 km dalla città da reparti speciali che si muovono con blindati e mitra spianati. Le strade dirette a Cizîr-Cizre sono quindi disseminate di checkpoint per impedire di raggiungere la città. Giornalisti e delegazioni internazionali vengono bloccati. Un’incessante guerra non dichiarata, questa, che ha già provocato centinaia di morti fra i civili e circa 350.000 sfollati. Lo stato turco ha assunto posizioni sempre più autoritarie arrestando e inquisendo decine di giornalisti e accademici, e chiudendo o commissariando le redazioni dei giornali non allineati.
 Questi due aspetti stanno erodendo le speranze di una soluzione pacifica del conflitto nel sud est del paese. Una guerra fatta di bambini e anziani uccisi, di morti trainati con le camionette per la città legati per i piedi, schiacciati dai carri armati, di donne uccise lasciate nude in strada, di feriti lasciati morire in terra senza poter ricevere soccorso. Tornati ad Amed, Raffaella e Luca decidono di fare un giro nel Sur, quartiere storico della città racchiuso dalle antiche mura. I quartieri interni di Sur hanno una storia di 5.000 anni. Raffaella e Luca sono testimoni delle veglie di madri che da giorni chiedono la restituzione dei cadaveri dei loro figli e delle loro figlie rimasti sepolti sotto le macerie per poterli seppellire; ma sono passati mesi, e i corpi non sono stati ancora loro resi. Lo Stato parla ora di statalizzare i quartieri di Sur e al posto delle scuole sembra voler costruire caserme.
A conclusione dell’incontro, Raffaella con sguardo carico di emozione e di commozione mi riferisce che i curdi ripetono spesso tre slogan che li sostengono nel portare avanti la loro resistenza:

Non esiste un popolo libero se le donne non sono libere
Non esiste un popolo libero se non si fa cultura
Esisteranno profughi finché esisteranno delle barriere

Goffredo Fofi, nel libro Elogio della disobbedienza civile, edito da Nottetempo nel 2015, scrive: «La disobbedienza civile può fare a meno della nonviolenza […] mentre la nonviolenza non può fare a meno della disobbedienza civile», e definisce la disobbedienza civile «una violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida, emanata da un’autorità legittima». Pur nella consapevolezza che «il mondo continua a essere dominato dalla violenza, quella esplicita e barbarica, e quella di chi ha in mano le chiavi dell’economia mondiale e della ricerca, di chi ha già in mano da tempo le armi più distruttive, decisive», si può, secondo Fofi, pensare a nuove forme di resistenza; avviando nuove modalità di disobbedienza attiva e civile che superino la dicotomia tra violenza e non violenza e che individuino quando e dove la violenza nasce e si genera, combattendola e infine isolandola. E ancora, Albert Camus scriveva ne L’uomo in rivolta: «L’urgenza non chiede pazienza, è con l’impazienza che comincia un movimento che può estendersi a tutto ciò che veniva precedentemente accettato». A volte la storia impone di “attraversare un ponte”; l’importante è farlo sempre mantenendo in allerta i canoni della bellezza, della considerazione, della riflessione e dell’attenzione verso l’umano.

AGENZIA MARIS BILLB CP 01 01 – 31 12 24
NATURASI BILLB SEMI CECI FAGIOLI 19 – 28 04 24
AGENZIA CASA DEI SOGNI BILLB 01 01 – 31 12 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24